La necessità della bellezza
Partiamo da una domanda precisa e chiara, senza equivoci di sorta: l’uomo ha bisogno della bellezza? E se sì, fino a che punto? A domanda precisa, una risposta precisa: l’uomo non può fare a meno della bellezza e non ne può fare a meno per tutto il suo essere. Spieghiamo.
San Tommaso dice che il bello è ciò che, visto, piace. Si potrebbe obiettare: e ci voleva san Tommaso per capirlo? Una frase di questo tipo, infatti, presa alla lettera, è tanto condivisibile quanto ovvia. Ma se la si analizza ci dice cose che non solo non sono ovvie, ma vanno al fondo della questione. Vediamo in che senso.
Il bello deve essere visto
San Tommaso dice che il bello per piacere deve essere visto. Il che vuol dire che il bello deve porsi dinanzi lo sguardo. Non può, quindi, esserci bello che rimanga solo nel pensiero, cioè che scaturisca dall’immaginazione conservandosi solo nell’immaginazione. Il bello, seppur pensato e “prodotto” dal genio dell’artista, deve fuoriuscire dall’immaginazione per concretizzarsi e porsi dinanzi allo sguardo di ogni uomo.
Ma – e qui veniamo a una questione molto importante – per far questo, il bello deve riconoscersi nella dimensione dell’oggettività, cioè deve esprimere qualcosa che non solo può essere visto ma anche riconosciuto. “Riconosciuto” nel suo significato etimologico, cioè di essere “nuovamente conosciuto”. Insomma, lo stupore dinanzi alla bellezza deve essere già dentro il patrimonio della propria conoscenza.
Per essere chiari, ciò vuol dire che non si può ritenere bello ciò che è pura astrazione, intendendo per astrazione quel delirio immaginifico che non ha nessuna corrispondenza con i canoni della realtà. Una sedicente “opera d’arte” costituita da una pennellata fatta a casaccio su una tela bianca è tutt’altro che corrispondente a ciò che quotidianamente si pone dinanzi allo sguardo, per il semplice fatto che non comunica con chiarezza, ovvero, per riprendere un concetto citato in precedenza, non è ri-conoscibile.
Il bello deve piacere
L’altro punto della definizione di san Tommaso è che il bello, dopo che si è visto, piace. Chiediamoci: cosa significa “piacere”? Piacere vuol dire produrre appagamento, ma non un appagamento che sia una semplice soddisfazione, bensì un appagamento che scaturisca da un godere ciò che si è gustato.
Si può fare un esempio gastronomico. Ci si può soddisfare mangiando cibi prelibati così come ci si può soddisfare ugualmente mangiando pan-bagnato. La soddisfazione, come riempimento del ventre, c’è ugualmente, ma è innegabile che è diversa dall’appagamento del gusto. Un conto è placare la fame mangiando pan-bagnato, altro gustando cibi prelibati.
Parimenti si deve dire della bellezza. Essa riguarda un appagamento del gusto. Non si tratta solo di soddisfare, ma di avvertire piacere in questa soddisfazione. Ciò che turba, che inquieta non può porsi in questa prospettiva.
Certamente si possono avere tante opere d’arte che sono costrette a rappresentare la durezza della vita e anche la drammaticità o tragicità di alcuni avvenimenti, ma anche in questo caso una vera opera d’arte, pur dovendo descrivere la durezza di certi episodi, riconduce a un significato risolutivo, ovvero offre all’osservatore la possibilità di capire che ciò che è descritto non è fine a se stesso ma che si apre a un significato ulteriore di Bene.
Detto questo, si pone in tal senso una questione che a mio parere è altrettanto determinante, e cioè se può esistere un bello che prescinda dalla categoria morale del Bene. Qui si entra in un grande problema originatosi con la modernità prima e con la postmodernità dopo.
Venendo progressivamente meno il metafisico come fondamento imprescindibile sia per lo sviluppo del pensiero e sia per la comprensione dell’agire, la concezione del bello non solo ha perso, altrettanto gradatamente, i canoni dell’oggettività (cioè il rapporto con il Vero), ma anche i canoni morali (cioè il rapporto con il Bene).
La bellezza fa gustare il senso della vita
Dette queste cose, diventa comprensibile quanto la bellezza sia necessaria. Si tratta di una necessità assiologica, cioè legata ai valori. La bellezza è necessaria perché conduce al Bene; ma a patto però che sia espressione stessa del Bene, che sia unita costitutivamente ad esso.
Senza la bellezza l’uomo non può capire quanto il Vero (la Verità) e il Buono (la Bontà) determinino gusto e appagamento. La bellezza artistica serve a far capire che scegliere la Verità e praticare il Bene rendono più bella la vita.
Per comprendere ancor meglio ciò che abbiamo appena detto, ci serviamo di un esempio (ma se ne potrebbero fare molti) relativo alla differenza tra come si costruivano un tempo le chiese e come oggi si costruiscono. Un tempo (dobbiamo necessariamente generalizzare, ma non per questo banalizziamo) le chiese venivano costruite secondo alcuni canoni che non solo erano teologici, ma anche estetici. Si cercava di esaltare quanto più possibile la dimensione dello stupore, malgrado – si badi bene – la grande somiglianza e ripetitività di certe forme e di certi progetti.
Si trattava di uno stupore legato a quell’esperienza di penetrazione del sacro che il fedele inevitabilmente sperimentava allorquando varcava la soglia dell’edificio. Tanto nelle chiese più semplici quanto in quelle più sofisticate, tutto doveva ricondurre a Dio spingendo il fedele a due atti importantissimi e logicamente legati fra loro: la contemplazione e l’adorazione.
Contemplare il Mistero per poi inevitabilmente adorarlo. Ora, tanto il contemplare quanto l’adorare implicano il gusto, cioè quel piacere di cui parla san Tommaso d’Aquino. Si contempla ciò che piace… e si adora ciò che piace. Ciò che non piace non è contemplabile e pertanto non è nemmeno adorabile.
Oggi, invece, i luoghi di culto (e di esempi se ne potrebbero fare molti) vengono costruiti senza che si tenga in considerazione tanto l’esperienza della contemplazione quanto quella dell’adorazione. Lo sforzo è quello di esprimere non solo una perfetta uguaglianza tra sacro e profano (quante chiese moderne non sono visivamente riconoscibili come tali), ma addirittura sembra quasi che l’intento sia quello di far naufragare il sacro non in una profanità qualsiasi ma in quella più brutta e caotica, quasi per rendere il sacro meno piacevole del profano.
Ciò, ovviamente, risponde ad una ben precisa mentalità; più precisamente a due concezioni: la prima (tipicamente postmoderna) di evitare che la forma esprima un vero che sia oggettivo e fondato metafisicamente; la seconda, (figlia della cosiddetta “teologia della secolarizzazione”) legata a ciò che abbiamo appena detto: dissolvere il sacro nella quotidianità del profano… e quanto più questa quotidianità è all’insegna della contraddizione, della noia e del rifiuto, meglio è.
Ecco perché tante chiese contemporanee non solo sono brutte, ma anche più brutte del banale!
FONTE: Radici Cristiane n. 59