Orvieto: il Duomo e i suoi tesori
Nel 1882 a Orvieto fu fondato il Museo dell’Opera del Duomo. Fin da allora la sua configurazione fu quella di un museo cittadino, che raccogliesse i documenti, gli oggetti d’arte, le prove e i frammenti della storia culturale della città. Tutto vi era testimoniato: i mutamenti architettonici, l’alternarsi del potere politico, l’acquisizione di nuovi saperi e il susseguirsi di riti e tradizioni.
Una grande Wunderkammer insomma, utilizzando il concetto sorto nell’Europa Settentrionale che indicava la “camera delle meraviglie”, luogo in cui il dotto collezionista raccoglieva metodicamente – ma creando anche curiosi accostamenti (talvolta casuali!) – gli oggetti più interessanti, belli, inusuali, preziosi e rari. Si veniva a formare così un vero e proprio microcosmo sorprendente in cui elementi naturali si richiamavano a concetti simbolici, in cui le iconografie trovavano riparo nei testi sacri o profani, in cui i materiali più disparati posti a contatto fra loro ricordavano l’eccezionale varietà del mondo abitato dall’uomo.
Museo dell’Opera del Duomo: una camera delle meraviglie
Per alcuni mesi, tra l’aprile del 2006 e il gennaio del 2007, dopo circa vent’anni di chiusura, il Museo è stato aperto nuovamente al pubblico con una selezione di quasi ottanta pezzi tra pittura, scultura, arti decorative. Le opere, in osservanza del principio di un museo che appartiene a tutta la cultura locale cittadina e anzi la compone fortemente, sono state dislocate tra i Palazzi Papali accanto al Duomo (che in futuro accoglieranno definitivamente il nuovo museo) e la Chiesa di Sant’Agostino nel cuore medievale della città. Il percorso espositivo prevedeva anche la visita alla suggestiva cappella di San Brizio all’interno della Cattedrale.
Le opere, collocate cronologicamente, compongono un percorso non solo attraverso la cultura cittadina, come si è sottolineato, ma anche attraverso molteplici tendenze fondamentali per la comprensione della storia dell’arte italiana. L’arte toscana è fortemente presente. Sembra che Coppo di Marcovaldo, importante pittore fiorentino del tempo di Cimabue, abbia dipinto a Siena, durante la sua prigionia a seguito della battaglia di Montaperti, una Madonna in trono con il Bambino (1270 circa), attualmente parte del patrimonio orvietano.
Egli, abbandonando la ieratica frontalità che aveva caratterizzato questa iconografia nella pittura duecentesca toscana, addolcisce il movimento e dipinge il viso di Maria amorevolmente inclinato verso il Bambino che a sua volta si volge con lo sguardo alla madre. L’oro segna il tratto del panneggio, il colore sembra quasi incidere la tavola tanto è sferzante, eppure una dolcezza infinita ammorbidisce l’insieme.
Dopo di lui Simone Martini, uno dei più alti pittori del Trecento, è presente con due opere: il Polittico di San Domenico (1321 circa) e lo scomparto centrale del Polittico di San Francesco (1320 circa). Questi dipinti rappresentano bene le tematiche proprie dell’arte di Martini, fatte di ambienti cortesi, particolari eleganti e raffinati, di dame, menestrelli, ma soprattutto cavalieri, con la loro dignità e il loro eroismo strenuo e silenzioso. Anche i santi, come ha scritto Argan, «sono i militi di una cavalleria spirituale» in grado di veicolare «una nuova corrente di sentimento e una nuova petrarchesca cadenza poetica».
I tesori della Cattedrale
Oltre alle arti maggiori sono presenti in mostra paramenti sacri di eccelsa manifattura quali il corredo delle vesti del vescovo Vanzi, i cui preziosi ricami derivano da cartoni attribuiti a Sandro Botticelli, e il reliquiario di San Savino. Moltissime opere furono commissionate e create per l’arredo della maestosa Cattedrale cittadina.
Il cantiere si aprì nel 1290, sotto il pontificato di Nicola IV. Il primo architetto di cui si ha notizia per i lavori è il benedettino Fra’ Bevignate. Nel 1305 Lorenzo Maitani proseguì i lavori e ideò la magnifica facciata a tre cuspidi. All’interno la Cattedrale ha ospitato molte creazioni artistiche che nei secoli hanno subito innumerevoli traslazioni e che, nei mesi scorsi, sono state offerte agli occhi dei visitatori in occasione della mostra.
La prima opera esposta era il gruppo polimaterico della Maestà (primi del XIV secolo), un tempo collocato nella lunetta del portale maggiore del Duomo. Poi alcuni elementi originali del coro ligneo, e a seguire la tavola dipinta raffigurante Santa Maria Maddalena (1504) di Luca Signorelli, eseguita per l’altare della cappella di san Brizio.
Anche la serie dei dipinti manieristi proviene dalla decorazione degli altari laterali del Duomo, smantellati alla fine dell’Ottocento: sono tele di importanti artisti della riforma cattolica quali Nicolò Circignani detto il Pomarancio, Girolamo Muziano, Cesare Nebbia. Molti di questi sono stati esposti per la prima volta dopo il restauro.
Anche le opere esposte nella chiesa dell’antico convento di Sant’Agostino, nel centro medievale della città, provengono dalle navate della Cattedrale: sono il gruppo scultoreo dell’Annunciazione (1605-1608) di Francesco Mochi e le dodici statue degli Apostoli che, accostate ai pilastri della navata maggiore, accompagnavano il fedele verso l’altare.
Queste magnifiche sculture sono state realizzate tra il XVI e l’inizio del XVIII secolo da Raffaello da Montelupo, Francesco Mosca, Ippolito Scalza, Giambologna, Giovanni Caccini, Ippolito Buzi, Bernardino Cametti e Francesco Mochi. Quest’ultimo, come si è ricordato, è l’autore anche della Vergine e dell’Angelo annunciante collocati in origine ai lati del coro, in ininterrotto dialogo fra di loro.
La disposizione era certamente molto teatrale e, insieme alla materia, scavata e segnata e nuovamente disegnata dalla luce, creava una bella contrapposizione tra il corpo compatto e timidamente raccolto della Vergine e l’aerea mobilità dei gesti e del panneggio dell’Angelo, che quasi non si posa e rimane a metà tra la terra e il cielo.
La Cappella di San Brizio a Orvieto
Tra il 1404 e il 1444 venne costruita sul fianco destro della Cattedrale la Cappella Nova, o di San Brizio. La decorazione interna venne affidata al Beato Angelico che ne affrescò parzialmente la volta, lasciando poi il lavoro interrotto. Successivamente negli anni Novanta del XV secolo l’Opera del Duomo decise di riprendere e terminare gli affreschi e affidò l’impresa al toscano Luca Signorelli. Egli, dopo aver completato le vele si dedicò ai sei lunettoni delle pareti.
Il tema apocalittico, scelto per la decorazione, è inusuale per l’arte rinascimentale, ma si lega fortemente all’inquietudine di quegli anni che avevano visto forti rivolgimenti storici (la presa di Costantinopoli da parte di Maometto II, la scoperta del Nuovo Mondo) e l’anno 1499 che sembrava preannunciare, secondo le teorie astrologiche, la catastrofe e la fine del mondo.
Gli affreschi alle pareti mostrano allo spettatore la predicazione dell’Anticristo, la fine del mondo, la resurrezione dei morti, il Giudizio Universale, i dannati e gli Eletti: un’inquietante realtà fatta di corpi straziati, di diavoli lividi e nerboruti, di urla, di attesa, di paura.
Nel 1498 il rogo di Savonarola aveva senz’altro turbato gli animi; lo ritroviamo qui raffigurato come anticristo mentre predica alle genti e viene consigliato dal diavolo stesso. Alcuni personaggi in vesti rinascimentali certificano l’attualizzazione di ciò che viene rappresentato dal pittore. Più in basso, lungo lo zoccolo, Signorelli dipinse i ritratti di poeti che raccontarono l’aldilà, quali Ovidio, Virgilio, Dante, tra monocromi di immagini del purgatorio dantesco. Intorno orrorifiche grottesche collegano le figure e caricano le pareti di una spaventosa aura apocalittica. È il segnale che un epoca si stava ormai chiudendo. Di lì a poco sorgerà la rivolta di Lutero.
Per chi non l’avesse ancora visitata, la Cappella di San Brizio, momento fondamentale anche della mostra sui tesori dell’Opera del Duomo, è uno scrigno suggestivo ed emozionante, assolutamente da conoscere.
FONTE: Radici Cristiane n. 22