Pompeo Batoni: un ponte tra Barocco e Neoclassicismo

Pompeo Batoni: un ponte tra Barocco e Neoclassicismo - Schola Palatina

Per chi fosse di passaggio a Roma alla metà del Settecento e chiedesse del maggiore pittore del tempo gli verrebbe senza alcun dubbio indicato il nome di Pompeo Batoni, particolarmente – va aggiunto per correttezza storica – nei periodi di assenza dalla città eterna dell’altro eccellente “pennello”, Anton Raphael Mengs.

Oggi una vasta esposizione di opere dell’artista è allestita nel Palazzo Ducale di Lucca fino al 29 marzo, e celebra l’opera del suo importante concittadino a 300 anni dalla nascita. Le opere raccolte in questa occasione descrivono le fasi artistiche di Batoni, alternando i soggetti sacri a quelli allegorici, le grandi tele per palazzi o chiese ai ritratti privati.
Nell’insieme è possibile conoscere meglio un pittore che, nel periodo di passaggio dalla grande decorazione barocca del secolo precedente, che ormai sfumava i toni in un più vaporoso rococò, a quella che sarà poco dopo la stagione cosiddetta “neoclassica”, fu sommamente apprezzato per lo stile nitido e la profonda conoscenza e applicazione dei dettami del disegno classico romano.

Pompeo Batoni: dalla copia dell’antico alle prime committenze

Pompeo nacque a Lucca, figlio del celebre orafo Paolino Batoni da cui apprese i primi insegnamenti artistici relativi alla cesellatura dei metalli. Ancora giovanissimo si dedicò al disegno e nel 1729, all’età di 19 anni, si trasferì a Roma per studiare la pittura.
Nel primo periodo romano la giornata del giovane artista si divideva tra la scuola serale di Sebastiano Conca e le giornate spese a copiare le opere di Raffaello e Annibale Carracci e le statue antiche del Belvedere. I suoi disegni venivano particolarmente apprezzati dagli antiquari e collezionisti inglesi e romani, che li acquistavano, dando una prima rendita all’artista.

In quel periodo per il giovane furono importanti gli insegnamenti e l’esempio dei noti maestri attivi a Roma, quali Conca e Agostino Masucci, ma è fondamentale la conoscenza di Francesco Imperiali, pittore indipendente e originale. Egli aveva rapporti con il mercato inglese e tedesco e aiutò Batoni nei primi anni, presentandogli personalità di spicco, oltre che assistendolo nello studio della pittura.
Batoni conobbe in questo modo i suoi primi acquirenti: il cavalier Girolamo Odam, artista e uomo di cultura, l’antiquario Francesco Bartoli, lo studioso e collezionista Alessandro Furietti, che gli commissionò molti disegni di antichità per trarne stampe.

Si racconta che fu grazie alla sua abilità nel disegno che Batoni ottenne la sua prima commissione nel 1732: durante un temporale il conte Forte Gabrielli cercò riparo nel cortile del palazzo dei Conservatori imbattendosi nel giovane Pompeo che ricopiava un antico bassorilievo. Il disegno piacque talmente al Gabrielli che, dopo aver visionato alcuni quadri del pittore, gli commissionò la pala d’altare della cappella di famiglia nella chiesa di San Gregorio al Celio.
Durante gli anni Trenta si susseguirono gli incarichi e i lavori; tra le molte tele, Batoni dipinse La visione di San Filippo Neri nel 1733 e il Trionfo di Venezia nel 1737. Il suo stile in questo periodo subisce fortemente l’influenza della pittura di Imperiali, che esprime una decisa e nobile classicità. Ma il legame tra lo stile di Batoni e il senso classico è profondo soprattutto grazie alla città di Roma, culla dell’antico e del “classicismo recuperato” di Raffaello e poi di Annibale Carracci, fino a Carlo Maratta e alla sua scuola. Roma è completamente imperniata di tradizione classica.

I dipinti religiosi

L’affermazione professionale di Batoni tra il terzo e il quarto decennio del secolo è legata soprattutto alla produzione di opere sacre, ambito che gli permette di studiare ulteriormente Raffaello, Correggio e i grandi classicisti del Seicento quali Domenichino e Reni e che soddisfa la sua profonda religiosità.
La Vergine e il Bambino con i beati Pietro, Castora, Forte e Lodolfo, la già citata pala per la chiesa del Celio, è seguita da importanti commissioni quali Cristo consegna le chiavi a San Pietro, la grande tela esposta nel 1742 nella Coffee House del Quirinale, e la monumentale pala con la Caduta di Simon Mago, eseguita tra il 1746 e il 1755 per la Basilica vaticana, ma poi collocata nella Chiesa di Santa Maria degli Angeli.

Quest’opera conferisce a Batoni il titolo di maggior pittore di opere di soggetto sacro e storico di quel periodo: con lui continua la gloriosa tradizione della pittura romana degli ultimi tre secoli. Le composizioni sono solenni e grandiose, così come le figure sono imponenti. L’espressione pittorica è nel suo insieme appassionata e tocca spesso il registro eroico-epico.

I meravigliosi e coinvolgenti dipinti che raffigurano l’Estasi di Santa Caterina da Siena (1743) e il Martirio di San Bartolomeo (1749) furono destinati a due chiese lucchesi e tornarono dunque nella patria del pittore, il quale, orgoglioso dei suoi natali, si firmava “Lucensis”.
Accanto a questa produzione di pale d’altare l’artista affianca la serie dei quadri devozionali per i privati: tele di dimensioni ridotte e dal linguaggio più sommesso e intimo. Spesso il tema riproposto in numerose variazioni compositive è quello della Sacra Famiglia. Queste opere venivano commissionate soprattutto dalle famiglie aristocratiche italiane e dimostrano come il pittore sapesse alternare i toni della propria pittura.

Batoni ritrattista

Un altro genere in cui Batoni eccelle, e che gli conferisce fama e fortuna, è il ritratto. Alla metà del XVIII, quando la Penisola era continuamente attraversata da visitatori di tutta Europa e la moda del cosiddetto Grand Tour (il viaggio culturale) imperava, il nostro si dedicò con particolare capacità all’arte del ritratto.
Per quasi mezzo secolo Pompeo Batoni ebbe con gli inglesi rapporti di lavoro molto soddisfacenti: «Furono gli inglesi a far cogliere al nostro Batoni onorati e ricchi frutti del suo talento, della sua industria e del suo valore», scriveva Francesco Benaglio, letterato veneto, autore di una biografia del maestro, scritta tra il 1750 e il 1753.

Eppure successivamente proprio il pittore fu oggetto della critica inglese (sono noti gli “strali” di Joshua Reynolds), che considerò freddi e poco partecipi i soggetti rappresentati nelle tele dell’italiano. Probabilmente è una questione di differenti culture e maniere: il composto e affettato atteggiamento inglese poco si confaceva alle aspre rovine e ai fasti della Roma antica rappresentati, come la moda dell’epoca richiedeva, dietro l’aristocratico di turno.
Nonostante ciò Batoni nei suoi ritratti dà prova di un’attenta osservazione del tipo e del carattere umano; egli conferisce dignità ai suoi soggetti e tutto ruota intorno ad essi. La posa, l’espressione, lo sfondo, l’arredamento o il paesaggio all’interno del quadro ci raccontano qualcosa a proposito del personaggio rappresentato e del suo mondo.

Il pittore spesso organizzava sulla tela un vero e proprio “allestimento d’invenzione” inserendo le celeberrime sculture antiche della raccolta vaticana o dei Musei Capitolini, oppure le rovine dei monumenti romani, come ad esempio la Torre Leonina e quella dei Venti che compaiono in lontananza nel Ritratto di Sir Humpry Morice (1761-1762) che si riposa durante una battuta di caccia.

Cito infine un caso in cui un’opera, formalmente perfetta, diventa un capolavoro per la delicatezza con cui i suoi elementi iconografici ci raccontano una storia. Wills Hills, primo conte di Hillsborough posa con le mani giunte e osserva melanconico un clipeo con l’immagine di una donna. Il giovane alato – figura allegorica – che sorregge il “quadro nel quadro” è Imeneo, il dio del matrimonio, proveniente dalla letteratura classica.
Il conte di Hillsborough era giunto in Italia con la giovanissima moglie nella speranza che ella riacquistasse al caldo la salute. Ella morì a Napoli, e il conte, lungo la via del ritorno nel 1766, le rese omaggio facendosi immortalare insieme all’effige della moglie dal più grande ritrattista del tempo, Pompeo Batoni.

FONTE: Radici Cristiane n. 42

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