Contemplare la Mangiatoia di Betlemme
Contemplare la Mangiatoia di Betlemme è il modo migliore per capire il mistero della Chiesa. Non solo perché, pur nella sua povertà, ospitò la grandezza incommensurabile dell’Evento, che ebbe qui a realizzarsi. Ma anche e soprattutto poiché la presenza del Bambino Divino ne sublimò, anche a livello percettivo, la realtà di stalla in luogo di luce, intriso del profumo del Paradiso.
La buona teologia cattolica (ovvero la buona Dottrina) ha sempre affermato che ciò che è presente nella Tradizione è di più rispetto a ciò che è nella Scrittura. Ciò ovviamente non significa né che la Scrittura non sia importante né tanto meno che la Scrittura non costituisca una sintesi e anche una prefigurazione di ciò che la storia umana realizza.
Certo, un’affermazione di questo tipo è molto delicata e deve essere ben capita, altrimenti si può facilmente cadere in una lettura eccessivamente simbolista ed allegorica della Bibbia. Ma, pur dovendo evitare questa deriva, è bene sottolineare anche questo della Sacra Scrittura.
Partendo da questa convinzione, offriamo un’immagine che in questi giorni ogni buon cattolico dovrebbe contemplare: la mangiatoia di Betlemme, che vide venire alla luce il Verbo incarnato.
Lì, il Paradiso
Solitamente si dice che ciò che colpisce sia da una parte l’estrema semplicità del luogo, addirittura l’estrema povertà, dall’altra la grandezza incommensurabile dell’Evento che vi si realizza. Ciò è indubbiamente vero, ma incompleto. Incompleto perché il luogo della nascita del Verbo incarnato non si presentò soltanto con queste caratteristiche. Fu a tutti gli effetti una stalla, ambiente di per sé caratterizzato dalla presenza di animali, con tutti gli annessi ed i connessi percettivi del caso.
Eppure coloro che per primi furono chiamati ad adorare il Divino Bambino, entrando in quella stalla, non solo la videro piena di luce, ma vi percepirono realmente il soave profumo del Paradiso.
Il bagliore la rese talmente splendente da renderla più bella e lussuosa della più bella reggia costruita sulla faccia della terra. E così il profumo la rese più gradevole del luogo tradizionalmente più gradevole. Ma tutto questo non fu esito di una metamorfosi, nel senso che né la luce né tantomeno il profumo cambiarono i connotati del luogo. No: la stalla era rimasta stalla, così la mangiatoia era rimasta mangiatoia. Non metamorfosi, ma sublimazione. La presenza del Divino Bambino era riuscita a sublimare tutto, non modificando nulla. E coloro che arrivarono alla stalla s’inginocchiarono in adorazione non dinanzi alla semplicità, alla povertà ed alla sporcizia, ma al Divino che aveva sublimato ogni cosa.
Un’immagine di questo tipo è importante. Lo è sempre stata, ma forse oggi lo è ancora di più. Si tratta di una scena che fa capire come la bellezza possa coesistere con ciò che può di suo smorzarla. Parlare in questo caso di coesistenza non vuol dire dare un giudizio di ordine assiologico (in tal modo si giungerebbe ad una sorta di relativismo, la bellezza equivarrebbe alla non-bellezza e viceversa); no, si tratta di una coesistenza nella realtà-del-dopo-peccato-originale, cioè nella vita di tutti i giorni. Una coesistenza di fatto, non di valore.
Contemplare la Mangiatoia: la Chiesa e il Verbo
La stalla che ospita il Divino Bambino è l’umanità della Chiesa, mentre il Verbo incarna la sua santità. A contenere quella Meraviglia, quello Splendore, quella Luce che illumina ogni cosa, è ciò che non è affatto meraviglioso, non è affatto splendente, non è affatto luminoso. E così come ciò che non è meraviglioso, non è splendente e non è luminoso non pregiudica ciò che lo è nella pienezza, parimenti ciò che è il Totalmente Meraviglioso, il Totalmente Splendente e il Totalmente Luminoso non nullifica ciò che è diverso da questo.
C’è una realtà umana che sia immune dalla sporcizia? Certamente la percentuale può variare, ce ne può essere di più e di meno, ma la sporcizia è ovunque; perché l’uomo è ovunque e perché egli è quello che è, pieno di debolezze e di contraddizioni. Ma, a differenza di ciò che esiste sulla terra, a differenza delle altre realtà, solo la Chiesa ha la pretesa di vantare un’originalità: accanto a tutto questo, possiede anche e soprattutto la presenza di Dio; e questo la rende inequivocabilmente santa, come diciamo nel Credo. Solo la Chiesa ha la pretesa di affermare che essa è sì nella storia, che è sì nel mondo, che è sì formata da uomini con le proprie debolezze e nullità … ma non è né della storia, né del mondo, né degli uomini. E tutto questo perché è il prolungamento della presenza di Cristo nella Storia.
Lo scandalo, oggi, non è tanto una presenza più consistente della sporcizia quanto la dimenticanza della Presenza di Dio da parte di molti che vivono la Chiesa e che la governano. Si è voluto dimenticare in essa la presenza di Dio, la sua sovranità, che è la ragion d’essere della Chiesa stessa. E, perso Dio, rimane solo la sporcizia.
La Tradizione
C’è unicamente una cosa che può vincere la storia e il tempo, che può elevare: l’immutabilità del Vero, la perennità della Presenza di Cristo, alfa e omega dell’esistente, Colui ch’era, che è e che sarà sempre uguale: la fedeltà alla Tradizione.
Già! La Tradizione, che non è come dicono i suoi avversari una semplice verità intellettuale da evitare, ma soprattutto una Persona. La Tradizione è Dio stesso che non muta, è il Dio cristiano in cui Verità e natura-personale s’identificano, è il Dio cristiano che è Logos. La Tradizione non è il concetto-di-essere ma l’atto-di-essere (esse ut actus) come amava dire san Tommaso.
Se si rinuncia a questo per inseguire il vento, se si rinuncia a questo per inseguire la storia e il tempo, si finisce con l’eclissare la Presenza di Dio ed è come se i pastori, arrivando alla mangiatoia, avessero trovato soltanto la sporcizia degli animali e non lo splendore abbagliante, affascinante e purissimo dell’Incarnazione.
FONTE: Radici Cristiane n. 110