Hernán Cortés, Conquistador del Messico

Hernan Cortés, Conquistador del Messico - Schola Palatina

«Lavora per la verità ed è uomo da mantenere sempre la sua parola, il ché molto giova agli indios. Porta come bandiera una croce rossa su sfondo nero, circondata da fiammelle blu e bianche, con una scritta che dice: “Amici, seguiamo la Croce di Cristo. Avendo Fede in essa, con questo segno vinceremo!”. Laddove arriva, per primo innalza una croce». Ecco la descrizione di Hernán Cortés, il Conquistador del Messico, fatta da un testimone oculare, Frà Toribio de Benavente, in una lettera del 1519 all’Imperatore Carlo V. L’ispirazione religiosa della Conquista spagnola del Nuovo Mondo è evidente.

Lo stesso Imperatore aveva dato ordini precisi ai suoi luogotenenti: «Il nostro principale intento e desiderio è quello di portare gli indigeni alla conoscenza del vero Dio Nostro Signore, e di far loro accettare la Sua Santa Fede». Ordini ribaditi poi dal suo figlio Filippo II: «Non desidero altro che la conversione di questi indigeni alla nostra santa fede cattolica».

Hernán Cortés: baccelliere in Diritto

Hernán Cortés nacque nel 1485 a Medellín, nell’Estremadura spagnola, che vide nascere anche il Conquistador del Perù Francisco Pizarro. La sua origine è controversa: c’è chi lo vuole di discendenza nobile e chi lo descrive invece come uomo di umili origini benché istruito, avendo fatto gli studi nell’università di Salamanca fino ad ottenere il baccellierato in Diritto. La sua educazione si fa notare, per esempio, nelle cinque lunghe lettere inviate a Carlo V tra il 1519 ed il 1526 e che compongono la Relazione della conquista del Messico, una delle fonti storiche primarie su quel periodo. In tutta la sua vita, Cortés rivelerà uguale attitudine per le lettere e per le armi. Attratto dalla vita militare, all’età di diciassette anni Cortés si arruolò nelle milizie del Gran Capitano Don Gonzalo de Córdoba e partì alla volta d’Italia. Ma non vi giunse mai, spendendo un’intero anno a girovagare per le grandi città portuarie, come Siviglia e Cadice, affascinato dallo spettacolo delle caravelle che vi arrivavano dal Nuovo Mondo.

Nel 1504 egli si imbarcò su una nave commerciale e giunse a Santo Domingo, allora sede dell’amministrazione spagnola. Lo aspettava un amico di famiglia, segretario del Governatore, che gli offrì terre e proprietà. Hernán Cortés rispose alteramente che «né in questa né in alcuna altra isola del Nuovo Mondo desidero io né conto di stare così a lungo». La sua sete di avventure era più forte del desiderio di sistemarsi…

Trasferitosi a Cuba, inizia un burrascoso rapporto con il governatore Diego Velázquez che, comunque, gli affida la terza spedizione in Messico, dopo i falliti tentativi dei capitani Francisco de Córdoba e Juan de Grijalva. Nel 1519 Cortés approda a Cozumel. Sulla costa del Golfo il capitano viene accolto amichevolmente dai Totonachi che diventano suoi alleati nella guerra contro l’Impero azteco-mexica. Nel frattempo il governatore di Cuba si pente di questa spedizione e cerca di richiamare Cortés che per tutta risposta fa incendiare le proprie navi e fonda simbolicamente la città di Veracruz, dichiarandosi sotto la diretta autorità del Re di Spagna e proseguendo la marcia verso Tenochtitlán. Come ben commenta lo storico Salvador de Madariaga: “Nulla c’è di simile nella storia, neppure il passaggio del Rubicone”.

Il ritorno di Quetzalcoatl

Consumati astronomi, gli aztechi avevano sviluppato un calendario che computava il tempo in periodi di cinquantadue anni, ognuno numerato come le carte da giuoco: uno di spade, due di bastoni e così via. I quattro “semi” del calendario azteco erano conigli, canne, pietre e case. Finito il mazzo di carte, si chiudeva un periodo e la numerazione riprendeva daccapo. Ogni passaggio di periodo era segnato da rituali non del tutto diversi dalla Pasqua cristiana: i vecchi fuochi erano spenti e se ne accendeva uno nuovo, simbolo della vita che rinasceva.

La teologia della storia azteca paragonava le varie epoche al sorgere di successivi “soli”: dal Primo sole, corrispondente alle loro origini nella mitica valle di Aztlán, fino alla “pienezza dei tempi” che sarebbe avvenuta nel Quinto sole col ritorno del grande dio Quetzalcoatl, il “Serpente dalle Piume Preziose”, raffigurato come un “uomo robusto, dall’aspetto grave, bianco e barbuto”.

Secondo le tradizioni azteche (sorprendentemente coincidenti in questo particolare con quelle maya ed inca) questo uomo, vestendo una lunga tunica bianca, era già venuto in passato dagli indigeni americani, “insegnando loro con opere e parole il cammino della virtù e ad evitare i vizi e i peccati, dando leggi e retta dottrina”. Andandosene verso Oriente, da dove era venuto, promise tuttavia di tornare alla fine dei tempi. Si trovano tracce di questo misterioso personaggio, per esempio, nel Nican Mopohua azteca e nel Popol Vuh maya.

Agli inizi del ‘500 regnava sul Messico l’imperatore Montezuma il Giovane, «uomo di gravità e maestà regale», secondo il cronista Cervantes de Salazar. Volgeva alla fine l’era del Quarto sole, detto Tlatonatiuh o “Sole di Fuoco” perché gli astrologi affermavano che era destinato a perire nelle fiamme. Affermavano inoltre che il passaggio di epoca sarebbe avvenuto in un anno “2 canna” dell’ottavo periodo, corrispondente al 1519 del calendario cristiano.

Quando nell’anno “4 casa” (1509) una meteora solcò i cieli di Tenochtitlán, la capitale dell’Impero, tutti furono presi da spavento: era il primo presagio dell’avvento del Quinto sole. Montezuma fu molto turbato da successivi presagi: un’eclisse solare, l’incendio del tempio di Uitchilipochtli, il ribollire dell’acqua della laguna di Messico, strillanti grida di donne durante la notte, uno strano scalpitìo di animali…  Montezuma stesso vide ad Oriente una grande nuvola bianca “che splendeva e mandava tanta luce da parere mezzogiorno”. Qualcosa di molto grande stava per accadere.

Un giorno del 1519, un mazehual, uomo di umile condizione, chiese udienza all’Imperatore e gli parlò così: “Signore e re nostro, perdona la mia audacia, io sono di Mictlan Cuauhtla, sono giunto alla riva del mare grande e ho visto andare in mezzo al mare come una montagna o una grande collina che si moveva qua e là”. L’imperatore mandò allora gente sicura che, tornando, riferirono di aver visto “due torri CHE galleggiavano sul mare”. Da esse erano usciti uomini bianchi e barbuti vestiti di panni rossi e di piume. Montezuma chinò il capo e non disse cosa alcuna. Era tornato Quetzalcoatl. Ora si chiamava Hernán Cortés e avanzava verso Tenochtitlán con un pugno di guerrieri e di frati. A qualche lega dalla città, gli venne incontro un’ambasciata di Montezuma, con a capo il principe Cacamatzin suo nipote nonché re di Tetzcuco, il quale assicurò Cortés delle buone intenzioni dello zio.

Hernán Cortés e l’incontro dei due mondi

Gli spagnoli entrarono nella capitale dell’impero Azteca il martedì 8 novembre 1519. Scrive il cronista Bernal Díaz: «Vedemmo tante città e villaggi popolosi sull’acqua e in terra ferma altri grandi paesi, e quella strada che andava così diritta a Messico, rimanemmo meravigliati e dicevamo che somigliava alle cose d’incantamento che si narrano nel libro di Amadigi. Alcuni dei nostri soldati si domandavano si quello che vedevano non era cosa di sogno». Ricevuti con grandi mostre di riverenza, gli spagnoli furono introdotti alla presenza di Montezuma «riccamente vestito e calzato con sandali d’oro», che arrivò su una lettiga portata da otto nobili. Per la prima volta egli poté guardare Cortés negli occhi.

Il Conquistador si inchinò davanti all’Imperatore con gesto affabile, riconoscendo così la sua autorità politica. Poi diede alcuni passi in avanti e aprì le braccia. Il gesto, però, non fu seguito dagli indigeni: Montezuma era troppo sacro per essere toccato. Dopo lo scambio protocollare di regali e mutue affermazioni di pace e amicizia, si salutarono alla moda azteca e, dettaglio essenziale, Montezuma se ne tornò al suo palazzo a piedi: avendo riconosciuto in Hernán Cortés il dio del Serpente Alato, egli non poteva più usare la lettiga nella sua presenza. Seguirono diversi incontri tra i due capi, durante i quali, oltre alle questioni politiche e militari, si trattavano anche problemi religiosi, giacché Cortés si era prefisso di dimostrare a Montezuma la bontà della dottrina cristiana.

I sacrifici umani e la distruzione degli idoli

Secondo la religione indigena, gli dèi avevano un continuo bisogno di sacrifici umani affinché continuassero a governare l’universo in modo ordinato. Per procurarsi le vittime, gli aztechi intraprendevano quindi le cosiddette “guerre fiorite”, dopo le quali i prigioneri venivano sacrificati in modo rituale. La liturgia era agghiacciante: estese su una pietra al vertice d’una piramide, alle vittime veniva strappato a freddo il cuore, offerto ancora palpitante ai dèi mentre i corpi venivano buttati giù e lasciati in pasto agli avvoltoi.

Nelle grandi feste venivano così uccisi più di ventimila uomini. La puzza era indicibile. Provvidenza volle che Cortés entrò per la prima volta in un tempio proprio mentre vi si svolgeva questo ributtante rituale. Preso da santa indignazione, egli distrusse uno ad uno tutti gli idoli con una barra di ferro. Il cronista Frà Toribio de Benavente sottolinea il carattere soprannaturale del gesto: Cortés era protetto da pesante armatura, le statue erano ad un’altezza di quindici piedi, solo una forza superiore avrebbe potuto permettergli di balzare così in alto per colpirle.

Informato di questo, Montezuma inviò un messaggero per avvertire Cortés di non toccare gli dèi perché egli e i suoi compagni sarebbero morti. Ecco la scena descritta da Frà Benavente: «Rivolgendosi ai suoi compagni, il Capitano, con molto spirito e quasi piangendo, disse: “Fratelli, cosa importano le nostre vite ed i nostri personali interessi? Meglio morire adesso per la gloria di Dio e affinché i demoni non siano adorati”. I cristiani erano appena trenta. Gli indios innumerevoli. Ma questi furono presi da tale spavento che non osarono alzare la mano contro il Capitano. Distrutti gli idoli, egli vi pose un’immagine della Madonna».

Nella conquista dell’impero atzeca, Cortés fu avvantaggiato, nella sua audacia, a parte dalla sorpresa degli indigeni alla vista del cavallo e delle prime armi da fuoco, proprio dall’odio che le popolazioni sottomesse provavano per i dominatori, che le sottomettevano in maniera brutale a un regime schiavistico e inumano. Sobillando questi popoli ad uno contro Montezuma, Cortés poté liberarli per sempre dalla tirannia dei lori signori terreni e soprattutto da quella delle loro divinità infere. Ecco qualche episodio di questa ingente epopea qualificata da Papa Leone XIII «il fatto più grande e meraviglioso di quanti mai se ne videro nell’ordine delle cose umane».

FONTE: Radici Cristiane n. 20

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