Il Martirio di San Pietro del Guercino

Il Martirio di San Pietro del Guercino - Schola Palatina
FONTE IMMAGINE: Wikimedia (https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Guercino,_martirio_di_san_pietro,_1618,_01.jpg?uselang=it)

Nel Martirio di San Pietro l’autore, Giovanni Francesco Barbieri detto Il Guercino, non indica affatto una fine misera ed infame per il Principe degli apostoli, tutt’altro. Pietro non si cura di quello che gli sta attorno. Non ha più paura della morte e, dopo averlo fuggito più volte, si offre ora egli stesso al martirio. La forza gli viene dal suo affidarsi al Signore. Inutili i tentativi dei suoi aguzzini di attrarre la sua attenzione. Gli occhi e i gesti di Pietro sono ormai già proiettati verso il cielo e non più su quello che accade in terra.

Da alcune fonti biografiche giunge la notizia che la grande tela, alta più di tre metri e raffigurante il Martirio del Principe degli Apostoli, sia stata commissionata attorno al 1618-19 a Giovanni Francesco Barbieri, soprannominato il Guercino per il suo strabismo. La voleva Orazio Cabassi, per essere collocata nella sua cappella di famiglia, posta all’interno della chiesa di San Bernardino a Carpi.

Passata poi ai duchi D’Este, fu requisita dalle truppe napoleoniche – che la riconobbero come uno dei capolavori dell’arte italiana – per poi tornare a Modena, dove è ancora oggi conservata.

Siamo in una fase iniziale della carriera dell’artista, nato a Cento nel 1591, formatosi principalmente a Bologna, studiando le opere dei Carracci, e trasferitosi a Roma nel 1621 all’epoca di papa Gregorio XV Ludovisi.

Un atto di umiltà

Il soggetto è incentrato sul martirio di Pietro, che la tradizione e i dati storici dicono avvenuto in Vaticano durante la persecuzione voluta dall’imperatore Nerone, a seguito dell’incendio del 64. Il Santo fu condannato alla crocifissione, ma la tradizione tramanda che fu egli stesso a chiedere di essere crocifisso a testa in giù per un atto di coraggiosa umiltà, ritenendo irrispettoso e indegno subire lo stesso supplizio già riservato a Gesù.

Il tema era stato affrontato nell’arte più volte per il suo potente valore didattico e di testimonianza di fede. Colui che Cristo aveva scelto come la «Pietra su cui avrebbe fondato la sua Chiesa» nel corso della sua vita si era spesso trovato a fuggire e a tradire il suo Maestro per umana paura. Ma non lo farà alla fine, nella sua estrema imitatio Christi, affrontando con coraggio il martirio sulla croce riversa.

Ed è questa forza esemplare, della fede più che muscolare, che qualche anno prima a Roma era divenuta il fulcro delle tele di Caravaggio e Guido Reni, rispettivamente nella cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo, del 1601-05, e nella tela realizzata dal Reni nel 1604-05 per la basilica di San Paolo Fuori le Mura (oggi in Pinacoteca Vaticana).

Il Martirio di San Pietro e la potenza emotiva dei colori

Non è possibile provare, tuttavia, se nel 1618 Guercino avesse già avuto modo di vedere questi due capolavori o una loro traduzione a stampa. Certo è che il violento chiaroscuro che caratterizza la sua fase giovanile fa sorgere il sospetto che un qualche contatto con la pittura caravaggesca ci sia stato, anche se, a differenza del Merisi, il Guercino lo usi non per dare un effetto di tridimensionalità alle sue forme, ma per accendere la potenza emotiva dei colori, distribuiti a grandi macchie e utilizzati in maniera densa e satura, sul modello dell’arte veneta.

Inconfondibile e immediatamente riconoscibile è l’uso che fa il Guercino del colore blu brillante, con un’intensità e luminosità che ben si riconosce anche in quest’opera monumentale.

Dal punto di vista compositivo, rispetto alla sintesi estrema del Reni e del Merisi, l’interpretazione del Guercino è più affollata e più esplicita nel palesare l’intervento divino, attraverso la presenza fisica degli angeli, piuttosto che solo tramite la luce, che anche qui è pur sempre connotata da un carattere divino.

L’identificazione del Santo con il Principe degli Apostoli è resa certa dalla presenza della chiave, suo attributo tradizionale, che pende sotto la sua mano destra. Ma a malapena si riconosce la croce, posta in forte scorcio a terra e sulla quale lo stesso Santo si sta adagiando volontariamente. Il momento rappresentato, infatti, è quello prima del supplizio vero e proprio.

Attorno a lui i quattro aguzzini costituiscono un deplorevole campionario umano o meglio disumano. Due di loro sono impegnati nel preparare le corde per legare il Santo allo strumento del martirio. Un altro, con gli abiti stracciati, lo riprende con severità.

Un altro, vestito di rosso e con volto intenzionalmente caricaturale, lo sta umiliando deridendolo, denudandolo di quel manto blu che tra l’altro è il colore solitamente associato a san Pietro. Un blu decisamente saturo e brillante, che sempre in Guercino e anche qui assume il ruolo centrale di attrazione dell’occhio dello spettatore sul personaggio principale della storia narrata. E che ritorna anche nello sfondo del cielo, contribuendo a creare un’atmosfera di serena speranza, nonostante la plumbea situazione in corso.

Gli occhi volti al cielo

Dietro Pietro s’intravvedono due donne. Si nascondono dietro una parete diruta per assistere da lontano alla drammaticità del momento. Una delle due gira la testa per non guardare, con il naso e gli occhi arrossati e lucidi per il troppo pianto, mentre la sua compagna si asciuga le lacrime con un panno.

Sembra davvero la fine, una fine misera e infame per il Principe degli apostoli. Ma Pietro non si cura di quello che gli sta attorno. Non ha più paura della morte e, dopo averlo fuggito più volte, si offre ora egli stesso al martirio.

Da dove gli viene questa forza? Non certo dall’energia del suo corpo, che Guercino descrive nei dettagli come quello di un anziano, indebolito dall’età e dalle prove subite. E nemmeno dagli uomini, perché tutti lo hanno lasciato solo, anche le donne, che nulla possono fare in suo favore.

Guercino mette quindi in chiaro che la forza del Santo deriva invece dal suo dialogo e dal suo gesto di affidamento, ormai diretto ed esclusivo, con il Signore. Per lui, infatti, è già pronto il seggio della gloria in cielo.

L’angelo maggiore glielo indica, mentre dietro di lui due graziosi cherubini preparano la corona di rose da porgli sul capo. La presenza delle creature celesti è una citazione diretta della principale fonte di riferimento per quest’opera, la Legenda Aurea scritta nel tardo Medioevo da Jacopo da Varagine, dove viene detto che durante il supplizio di Pietro in cielo erano apparsi angeli recanti corone di rose e di gigli. Inutili i tentativi dei suoi aguzzini di attrarre la sua attenzione. Gli occhi e i gesti di Pietro sono ormai già proiettati verso il cielo e non più su quello che accade in terra.

FONTE: Radici Cristiane n. 154
FONTE IMMAGINE: Sailko, CC BY-SA 4.0, attraverso Wikimedia Commons

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