La caduta dei tre Imperi: dall’ordine al caos

La caduta dei tre Imperi: dall’ordine al caos - Schola Palatina

La cattiva o impossibile applicazione del principio di nazionalità era solo uno degli aspetti di una più generale precarietà dell’assetto post-bellico. Finiva l’epoca del concerto europeo, che da Vienna a Sarajevo aveva saputo evitare guerre continentali, l’Europa delle Grandi Potenze si trovava improvvisamente priva di tre dei suoi tradizionali punti di forza – Vienna, Berlino e Pietroburgo –; gli Stati medi e piccoli nati o rafforzatisi sulle ceneri dei tre Imperi scomparsi non potevano sostituirli nella funzione di co-garanti dell’equilibrio europeo: in particolare, con la scomparsa dell’antica e gloriosa monarchia asburgica venne a mancare un elemento ordinatore e mediatore delle varie nazionalità dell’Europa Orientale, che avevano ricevuto dal «padre dei popoli» un trattamento spesso più equo di quello che le varie minoranze riceveranno nei nuovi Stati nazionali.

All’Austria-Ungheria succedettero, infatti, pretesi Stati nazionali, che in realtà erano altrettanto multinazionali dell’Impero scomparso con l’aggravante di rifiutarsi di ammetterlo, mentre l’etnia dominante opprimeva le minoranze. La composizione etnica e religiosa di tali Stati risulta dalle tabelle seguenti, tratte dai dati pubblicati da Henri Bogdan in Storia dei Paesi dell’Est:

Cecoslovacchia e Jugoslavia

A questi dati eloquenti vanno aggiunte alcune considerazioni relative a due Stati, e , creati con i trattati di pace del 1919, due costruzioni artificiali durate pochissimo e dissoltesi la prima volta rispettivamente nel 1939 e nel 1941, la seconda, senza poterne incolpare alcun Hitler, nel 1993 e nel entrambi gli Stati, le etnie dominanti, i cechi nel primo caso, i serbi nel secondo, che rappresentavano meno del 50% della popolazione, esercitarono una dura egemonia sulle minoranze nazionali, che ebbero tutti i motivi per rimpiangere la situazione precedente. Non a caso gli slovacchi, come del resto i croati e gli sloveni, rimasero fino all’ultimo fedeli alla monarchia asburgica.

Nel Cecoslovacchia su 140 ufficiali generali uno solo era slovacco, su 13.000 ufficiali subalterni gli slovacchi erano 420; 33 erano gli slovacchi a fronte di 1.246 cechi nei ranghi del Ministero degli esteri; tra gli 8.000 funzionari delle amministrazioni centrali dello Stato gli slovacchi erano solo 130. Considerando la situazione della Slovacchia essa «rimaneva sotto ogni profilo una colonia dello Stato cecoslovacco, sfruttata a esclusivo vantaggio dei cechi», come scrisse Henri Bogdan.

La situazione della Jugoslavia è fin troppo nota. Sloveni e croati ebbero prestissimo modo di rimpiangere anch’essi il passato, in uno Stato dominato dai serbi la cui costituzione centralista fu approvata nel 1921 senza che alla sua votazione partecipassero, in segno di protesta, i deputati delle due minoranze nazionali.

L’Impero era meglio

«La monarchia austro-ungarica assolveva nel 1914 un compito incontestabile e non era affatto quel “carcere dei popoli” come spesso è stata definita. Ci si può chiedere se gli Stati che si formarono dal suo smembramento si siano dimostrati più capaci di lei di risolvere i problemi nazionali. L’idea nazionale, molto rispettabile in sé, è poi troppo spesso diventata strumento di oppressione. Forse la saggezza avrebbe richiesto che le aspirazioni nazionali avessero cercato di svilupparsi nel seno di uno Stato plurinazionale», come affermò lo storico francese Jacques Froz al XLI Congresso di Storia del Risorgimento Italiano del 1963.

Un’altra autorevole opinione, tra le molte che si potrebbero citare, sull’insostituibile ruolo dell’Impero nell’Europa danubiano-balcanica è quella di uno dei più importanti diplomatici e studiosi della diplomazia, largamente noto come il teorico del containment, la strategia di resistenza all’espansionismo sovietico, l’americano George Kennan per il quale «l’Impero austro-ungarico appare tuttora come soluzione degli intricati problemi di quella parte del mondo, migliore di tutto ciò che gli è subentrato», come scrisse in The Decline of Bismarck’s European Order. Franco-Russian Relations, 1875-1890.

Sul piano economico i nuovi Stati potevano reggersi autonomamente a fatica: «Questa magnifica via di unificazione che è il Danubio rimase, tra le due guerre, quasi inutilizzata, perché non si riuscì mai a sopprimere o ridurre le undici dogane che lo spezzettavano da Ratisbona fino a Giurgiu», come osservò Paul Henry in Nazionalità e nazionalismo.

Versailles: una tregua, non la pace

La caduta dei tre Imperi ed il vuoto (o comunque la frammentazione) di potere derivatone, in particolare la caduta degli Asburgo, quegli Asburgo, che, come ha scritto in L’Austria e l’Europa. Saggi 1914-1928 Hugo von Hoffmansthal, «hanno rappresentato mille anni di lotta per l’Europa, mille anni di missione europea, mille anni di fede nell’Europa», non avvicinò l’unità del Continente. Sul piano spirituale, culturale, dell’omogeneità dei regimi costituzionali, era molto più unita l’Europa di prima della guerra, nella quale qualcosa ancora viveva dell’eredità di Metternich, rispetto a quella post-bellica, che, priva di equilibrio e di valori comuni, dopo soli vent’anni sarebbe precipitata in una nuova guerra.

«Il trattato di Versailles e quelli che lo seguirono non stabilirono la pace ma una tregua. Le deliberazioni del 1919 si dimostrarono più labili e caduche di quelle dei Congressi di Vienna, di Parigi del 1856 e di Berlino», affermò Augusto Torre in Versailles. Storia della conferenza della pace. Se i contrasti di nazionalità furono l’occasione dello scoppio del primo conflitto, del secondo saranno la causa lontana, sulla quale germinarono gli imperialismi totalitari. L’ordine ritornerà nell’instabile Europa centro-orientale, ma al prezzo di una dura dominazione ideologica; l’Europa ritroverà l’equilibrio, ma al prezzo di una sua drastica divisione.

L’assetto definitivo del Paese fu stabilito dal trattato di Losanna del 24 luglio 1923, che consacrò la nascita della Turchia come Stato nazionale moderno, da allora in poi elemento di stabilità nell’area del Vicino Oriente. A farne le spese furono le minoranze armena, curda e assiro-caldea, le cui aspirazioni all’autonomia furono sanguinosamente represse, come rivela il milione e 300 mila armeni sterminati durante la guerra dal governo turco; tali minoranze vennero inserite nel nuovo Stato nazionale senza norme particolari a loro tutela, mentre l’assetto di Sèvres aveva invece previsto un’Armenia indipendente ed un Curdistan autonomo.

FONTE ARTICOLO E IMMAGINE: Radici Cristiane n. 144

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