Il Cristianesimo e la morte

Il Cristianesimo e la morte - Schola Palatina

Le ricorrenze dei Santi (1° novembre) e dei Defunti (2 novembre), nel Cristianesimo, ci ricordano la morte. Ci ricordano la beatitudine eterna del Paradiso, ma anche la possibile purificazione.

Il Mistero della Chiesa va oltre le categorie spazio-temporali: c’è sì la Chiesa militante (le anime che su questa terra combattono per conquistare la salvezza), ma c’è anche la Chiesa trionfante (le anime nella gloria del Paradiso) e quella purgante (le anime che si stanno purificando, che hanno bisogno delle nostre preghiere ma che, unite in Cristo, possono anch’esse pregare per noi).

Non c’è ovviamente una “Chiesa dannante”, perché le anime dell’inferno sono irrimediabilmente perdute in quanto separate da Cristo. Si sa che è soprattutto sulla morte – cioè su come si tenta di risolvere questo problema – che le religioni trovano la loro ragion d’essere. Ciò vuol dire che le religioni possono essere giudicate anche da come sanno “risolvere” la questione della morte.

Brevemente facciamo un viaggio attraverso le diverse “posizioni” sulla morte che hanno assunto le tradizioni religiose più importanti. Le posizioni possono essere ridotte a tre:

1.    La morte come illusione.
2.    La morte come valore.
3.    La morte come questione.

La morte come illusione

Iniziamo dalla prima. In essa rientrano tutte le religioni che esprimono un’impostazione monistica, cioè che affermano che la realtà è formata da una sola sostanza che si esprime differenziandosi, cioè dando origine a diverse realtà che sono solo apparenti. È il monismo spiritualista delle religioni del contesto indù (Induismo e Buddismo) ed è il monismo naturalista delle religioni estremo-orientali (Taoismo, Confucianesimo e Shintoismo).

Poiché per il monismo l’individualità è un’illusione, è illusione anche la vita di ogni uomo. E se è illusione la vita di ogni uomo, allora diviene illusione anche la morte; ciò perché la morte è morte dell’individuo, anzi di quell’individuo così come storicamente è vissuto.

Da qui anche il significato della reincarnazione che accomuna le religioni monistiche. La reincarnazione è in coerenza con i presupposti di una morte come non-problema, come illusione.

C’è un brano della Bhagavadgita in cui la divinità Krishna arriva addirittura ad esortare il principe Arjuna, della stirpe dei Bharata, a vincere la compassione e ad uccidere in battaglia i suoi parenti stretti, proprio perché l’uccisione sarebbe solo un’illusione.

La morte come valore

La seconda posizione è quella della morte come valore. Cioè la morte come qualcosa di positivo, anche se istintivamente può far paura. In questa tipologia rientra l’Islam, la cui dottrina ammette sì l’esistenza del peccato originale, ma ne riduce le conseguenze, nel senso che esse sarebbero state subìte da Adamo ed Eva e non dai lori discendenti.

Ciò vuol dire che la morte non è una conseguenza del peccato originale, ma una “creatura” di Allah e pertanto, in quanto voluta e creata da Allah, è anche un valore. Ecco perché l’Islam canta spesso la “bellezza” della morte; non solo per chi decide di andarvi incontro attraverso la jihad, ma anche per chi vive la vita di tutti i giorni. La morte è parte integrante della vita…e non scandalo.
L’Islam cerca poi di “correggere” questa posizione (poco naturale da un punto di vista esistenziale) considerando il Paradiso non come godimento della visione beatifica di Dio, ma come aumento, a dismisura, dei piaceri (anche quelli più sensuali) già sperimentabili nella vita terrena.

La morte come questione

E finalmente arriviamo alla  terza posizione, e cioè la morte come questione. In questa tipologia troviamo l’Ebraismo e il Cristianesimo, soprattutto grazie alla fede nel peccato originale. Secondo il pensiero ebraico e quello cristiano la  morte è uno scandalo, un problema, un qualcosa di innaturale.

Essa non era nel progetto originario di Dio, ma scaturì dal peccato originale, quindi a causa di un cattivo uso della liberta umana. Per questo, tanto l’ebreo quanto il cristiano possono temere la morte.

La morte, anche se è l’unica via per incontrare il Signore, è comunque un effetto del peccato e non è stata voluta da Dio. Ma il Cristianesimo va oltre. Pur non giustificando fobie nei confronti della morte (che significherebbero mancanza di fede), dà ancora più ragione al timore della morte.

Dio non solo non ha creato e voluto la morte, ma, incarnandosi, è venuto a farne vera esperienza. Cristo nel Getsemani ebbe paura di morire e arrivò a piangere dinanzi al sepolcro del suo amico Lazzaro, ben sapendo (da Dio) che la morte è un passaggio e non la fine di tutto, e ben sapendo che di lì a poco avrebbe fatto risorgere il suo amico. Dunque, il Cristianesimo, pur dando una soluzione alla morte, ne legittima il timore.

Chiediamoci: quale atteggiamento dinanzi alla morte è esistenzialmente più gratificante?

È convincente dire all’uomo: la morte è bella o la morte è un’illusione?

È umanamente molto più vero dirgli: la morte è stata vinta, non bisogna disperarsi dinanzi alla morte, ma non è innaturale che la si rifugga, è giusto averne timore, ed è giusto piangere la perdita dei propri cari.
Anche sulla morte la posizione cristiana è quella umanamente più vera.

FONTE ARTICOLO E IMMAGINE: Radici Cristiane n. 9

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