La Pala del Corpus Domini di Urbino

La Pala del Corpus Domini di Urbino - Schola Palatina

La funzione della pala dell’altare maggiore della chiesa della Confraternita del Corpus Domini ad Urbino, nota anche come Pala del Corpus Domini, è quella d’esser da modello ed insegnamento sulle concrete e dirette radici del Sacramento eucaristico e sulla continuità del gesto di Cristo in quello del sacerdote rivolto all’assemblea. Che è poi la stessa funzione dell’unico precedente noto di questo particolare soggetto, rarissimo nella tradizione iconografica occidentale: quello affrescato dal Beato Angelico nel convento di San Marco a Firenze.

Urbino, splendida e luminosa cittadina del Montefeltro, ha vissuto la sua età dell’oro sotto il governo di un duca illuminato, Federico da Montefeltro (1422-1482). Questi ne fece uno dei più importanti centri del Rinascimento italiano puntando tutto sulla cultura, oltre che sulle armi più tradizionali. E così la sua corte attrasse artisti da ogni parte d’Italia e fin dalla Spagna e dalle Fiandre, promuovendo un linguaggio innovativo, che fu un modello per molti altri centri italiani.

Proprio dalle Fiandre proveniva l’autore della Pala che celebra l’istituzione del Sacramento dell’Eucaristia, Giusto di Gand, italianizzazione di Joos van Wassenhove, nato a Gand attorno al 1430, attivo ad Anversa e successivamente in Italia. E proprio il duca Federico da Montefeltro compare tra i personaggi presenti nella scena. Eppure, quest’opera non fu realizzata per il palazzo del duca, bensì come pala dell’altare maggiore della chiesa della Confraternita del Corpus Domini a Urbino (per questo è anche nota come Pala del Corpus Domini).

Pala del Corpus Domini: un lavoro poco felice

A commissionarla fu la Confraternita, che dopo aver fatto realizzare a Paolo Uccello la predella alla base della scena principale, raffigurante il miracolo dell’ostia profanata, aveva anche convocato Piero della Francesca, prima di assoldare «mastro Giusto depintore». Il suo nome compare nel febbraio del 1473 e ancora nel saldo per la Pala finita dell’ottobre del 1474, quando fu liquidato freddamente dai suoi committenti: «non fece el dovere et da noi fu interamente pagato».

I critici si sono chiesti se tale insoddisfazione non vada legata all’attuale stato di cattiva conservazione della pala, che sicuramente ne offusca l’originaria piena bellezza. Alcuni ritengono che fu eseguita con materiali scadenti, altri che fu lasciata non finita e che venne conclusa da Giovanni Santi, padre del ben più famoso Raffaello Sanzio.

D’altra parte, Giusto era sovraccarico di lavoro in quegli anni e in più non era abituato a gestire un formato così grande, di oltre tre metri per lato, e a dipingere su legno di pioppo, piuttosto che di rovere. Anche gli olii locali usati come legante dei colori contribuirono alla non eccelsa fissazione del colore sul supporto.

La tecnica ad olio

Eppure, è proprio grazie alla tecnica ad olio, poco comune in Italia in quel tempo e tipica delle Fiandre, che Giusto riuscì a conferire quel senso di morbidezza e consistenza alle vesti degli angeli, che con i loro panneggi dalle volute frastagliate riempiono la parte alta della scena. O a fare attraversare di luce le ampolle trasparenti del vino e dell’acqua sulla tavola o a giocare con i riflessi dell’oro e dell’ottone, come nella brocca in primo piano a terra.

Efficacissima è invece l’interpretazione del soggetto raffigurato, che è davvero unico e molto interessante, perché estraneo sia alla tradizione fiamminga che a quella italiana. Ed è evidente che la committenza – la Confraternita del Corpus Domini, ma anche il duca Federico da Montefeltro che è lì raffigurato -, fornì precise indicazioni per esprimere al meglio il suo messaggio, che entra nel vivo delle radici del Sacramento eucaristico.

La scena raffigura il momento in cui, durante l’Ultima Cena, Cristo sta porgendo il pane agli apostoli, inginocchiati a terra in semicerchio attorno a lui, traducendo in azione concreta le parole «prendete e mangiatene tutti». Fuori dal gruppo rimane Giuda, relegato a mezza via tra interno ed esterno sul margine sinistro del quadro, mentre con sguardo accigliato osserva la scena, avvolto in un manto giallo e stringendo tra le mani il sacchetto gonfio di denari.

Alle radici dell’Eucarestia

Fatto sta che il luogo dove il tutto sta avvenendo non è una semplice sala, ma una chiesa, con l’abside sullo sfondo e di cui la tavola è l’altare. E quello che Cristo sta porgendo non è il solito pane comune, che si trova sempre sulle tavole dell’Ultima Cena, ma autentiche particole.

Queste sono tutte insieme adagiate sul tavolo, ai piedi del calice contenente il vino. Il calice però, come anche la patena che Cristo tiene in mano per accompagnare la consegna della particola, è chiaramente d’oro e di disegno moderno, identico a quello utilizzato durante la Messa in questa ed altre aree italiane del XV secolo.

È quindi lampante la funzione di questa Pala come modello e insegnamento sulle concrete e dirette radici del Sacramento eucaristico e sulla continuità del gesto di Cristo in quello del sacerdote rivolto all’assemblea. Che è poi la stessa funzione dell’unico precedente noto di questo particolare soggetto, rarissimo nella tradizione iconografica occidentale: quello affrescato dal Beato Angelico nel convento di San Marco a Firenze, modello per i monaci sulla verità e l’origine del Sacramento eucaristico e sul giusto modo per accostarlo. C’è modo e modo, infatti, per accostarsi all’Eucaristia e la Pala di Giusto di Gand ce lo spiega con chiarezza.

Pala del Corpus Domini: la posizione di Giuda

La posizione eretta e scostante di Giuda contrasta con quella della maggior parte degli apostoli, che sono invece in atteggiamento penitenziale, in ginocchio e con aperta gratitudine per l’offerta di sé del Signore.

D’altra parte, in quei tempi il Sacramento della Confessione e quello dell’Eucaristia erano ancora indissolubilmente legati e lo stare in ginocchio indicava anche la disposizione al pentimento, che è la condizione necessaria per essere in grazia di Dio. Quel pentimento e quella speranza di perdono che Giuda ha rifiutato.

Il concetto dell’attualità del Vangelo e della continuità nella Chiesa dei Sacramenti istituiti da Gesù, è quindi molto chiaro in questa Pala. E a rendere il tutto ancora più contemporaneo è l’ingresso sulla destra del duca Federico da Montefeltro, insieme ad altri cortigiani (Ottaviano Ubaldini e Costanzo Sforza?) e al piccolo erede Guidobaldo, in braccio a sua mamma Battista Sforza.

Il duca si sta rivolgendo a un personaggio in ricche vesti damascate e dal sapore orientale, che alcuni identificano con un medico ebreo convertito al Cristianesimo e battezzato da papa Sisto IV, che era stato in visita a Urbino in qualità di ambasciatore dello scià di Persia.

La presenza di questo personaggio potrebbe avere più funzioni. Da una parte riscatterebbe la figura negativa dell’ebreo, che nella predella aveva profanato l’ostia consacrata: il suo atteggiamento devoto e la mano sul petto indicano il riconoscimento della sacralità dell’evento in corso. Dall’altra starebbe a celebrare, ponendola sotto la protezione divina, la funzione mediatrice del duca Montefeltro nel sanare le dispute politico-dottrinali tra Occidente e Oriente.

FONTE: Radici Cristiane n. 161

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