Santi Cosma e Damiano

Santi Cosma e Damiano - Schola Palatina

La chiesa di Roma dedicata ai Santi Cosma e Damiano – due medici orientali martirizzati sotto l’imperatore Diocleziano, inclusi nel grandioso mosaico del catino absidale della basilica a loro dedicata a Roma – costituisce una pietra miliare della prima arte medioevale e un modello iconografico fondamentale, che sarà richiamato e citato nel suo schema essenziale in molti altri spazi sacri fino ad oltre il Rinascimento.

Tra le chiese, dopo l’Editto di Costantino che nel 313 d.C. diede la libertà ai cristiani, la basilica dei Santissimi Cosma e Damiano a Roma, consacrata tra il 526 e il 530, è stata la prima ad essere collocata non più ai margini della città, bensì nel cuore della Roma pagana, il Foro Romano, l’antico centro economico, politico, amministrativo e religioso dell’Urbe, peraltro riutilizzando le strutture di due importanti spazi pubblici preesistenti.

La sua parte principale, infatti, recupera un’aula appartenente al complesso del Tempio della Pace, costruito da Vespasiano nel 71-75 d.C., che da biblioteca pubblica era divenuto ufficio del catasto e infine sala di rappresentanza del Prefetto della città. A questa grande aula l’imperatore Massenzio, attorno al 309, aveva aggiunto una struttura rotonda, interpretata un tempo come il tempio di suo figlio Romolo divinizzato, ma forse concepita come un ingresso monumentale e raccordo tra l’aula di Vespasiano e la via Sacra, lungo il tratto in cui quest’ultima, provenendo dall’arco di Tito, si immette nella vera e propria piazza del Foro.

Santi Cosma e Damiano: un dono di Teodorico

Siamo tra il 526 e il 530, durante il pontificato di Felice IV: proprio a questo papa il re ostrogoto Teodorico, morto proprio nel 526, o sua moglie Amalasunta avevano deciso di donare ufficialmente queste strutture per trasformarle in chiesa. E così la rotonda ne divenne l’ingresso, mentre l’aula principale il vero e proprio spazio sacro, visto che nelle sue proporzioni grandiose (oggi parzialmente ridotte dall’aggiunta di cappelle laterali) già si prestava a questo nuovo uso con la grande abside dalle pareti già tutte ricoperte di meravigliosi marmi istoriati, purtroppo perduti.

La chiesa fu dedicata ai gemelli Cosma e Damiano, due medici orientali martirizzati sotto l’imperatore Diocleziano, inclusi nel grandioso mosaico del catino absidale, che costituisce una pietra miliare della prima arte medioevale e un modello iconografico fondamentale, che sarà richiamato e citato nel suo schema essenziale in molti altri spazi sacri non solo romani, fino ad oltre il Rinascimento.

Dato il contesto e il carattere ufficiale dell’opera, una vera commissione papale con il placet dell’imperatore barbarico d’Occidente, non ci si poteva aspettare altro che un’iconografia trionfale, fortemente connessa sia con la tradizione romana classica, sia e soprattutto con il linguaggio approntato per le prime basiliche del IV-inizio V secolo, di cui abbiamo notizie dirette o indirette: San Pietro, il mausoleo di Costantina, Santa Pudenziana. In questi luoghi Cristo si presenta in maestà, con il volto barbato e maturo e veste dorata e imperiale, nell’atto del trasferire la legge o le chiavi a san Pietro o dell’essere acclamato dal collegio apostolico.

L’autorità di Cristo

Il Cristo di Santi Cosma e Damiano ricalca proprio questi temi e questi schemi iconografici nel presentarsi con il volto maturo e con la veste ufficiale imperiale, inondata di luce dorata. In mano ha il rotulo della legge e con l’altra compie il gesto dell’adlocutio, quello ispirato al discorso solenne dell’imperatore e segno dell’auctoritas che promanava dalla sua parola. Un’autorità che i cristiani trasferiscono a chi, unico, può esprimere la Parola, quella vera, che non tradisce.

Ai suoi lati Pietro e Paolo, in abiti solenni, prendono il posto dei dignitari nel cerimoniale di corte. I loro gesti di acclamazione servono anche a presentare al cospetto dell’imperatore i santi Cosma e Damiano, che cingono con l’altro braccio. Ai margini sono un altro santo orientale, san Teodoro, e, a sinistra, il papa Felice IV, che offre il modello della chiesa.

Ma l’interpretazione della scena non si ferma qui, perché altri elementi inseriti nella composizione, il contesto in cui sono posti e il movimento compiuto dalla figura maestosa di Gesù aggiungono ulteriori livelli di lettura e associano il momento raffigurato a quello dell’Ascensione, narrato dagli Atti degli Apostoli (1, 9-11).

Cristo, infatti, sembra al contempo salire verso la sommità della volta, ma anche avanzare verso di noi, nello sfondo di un cielo blu intenso, composto da migliaia di tessere vitree pazientemente inserite nella malta da maestri mosaicisti di altissimo livello qualitativo. La sensazione è quella di una totale smaterializzazione della struttura dell’abside, come se ci trovassimo di fronte a uno spazio aperto: Cristo giunge qui ed ora, con il corpo solido e il volto reale ancora memore della grande tradizione scultorea romana. Come romane, d’altra parte, sono le maestranze che lo hanno realizzato.

La luce della fede

La lunga iscrizione ai piedi della scena svela il significato di tanta bellezza: «La chiesa di Dio risplende meravigliosa di pietre policrome, in essa però sfolgora maggiormente la luce preziosa della fede».

Attorno a Cristo le nuvole hanno i colori del tramonto e dell’alba. Indicano la fine e l’inizio del tempo, la dipartita, ma anche il ritorno di Gesù alla fine dei tempi. Proprio come annunciato dal racconto dell’Ascensione: «Quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo“» (At 1, 10-11).

La figura di Cristo che avanza verso di noi, inondato di luce nella sua veste dorata, è quindi già il Cristo della seconda venuta enunciato nell’Apocalisse, che è poi l’altra fonte cui l’autore del programma iconografico ha voluto fare riferimento. Sulla terra verde poggiano saldamente i loro piedi i due principi degli Apostoli e gli altri santi. Ma quella è la terra promessa del paradiso terrestre, irrorata dall’acqua del fiume Giordano – come specifica la scritta inserita, a indicare che il Battesimo è il viatico fondante la salvezza.

Al paradiso terrestre alludono anche le due palme ai lati della composizione. Su quella a sinistra, in qualche modo indicata dallo stesso Gesù, è posta una rossa fenice, l’uccello che si diceva fosse in grado di risorgere dalle sue stesse ceneri. La Parola annunciata da Gesù, quindi, è quella della salvezza e della Resurrezione, garantita alla comunità dei fedeli, erede della prima Chiesa degli apostoli. Di questa sono simbolo il gregge di dodici pecore, che, emergendo da Betlemme e Gerusalemme, procede verso Cristo-agnello al centro della scena.

FONTE: Radici Cristiane n. 163

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