Gioacchino Rossini, l’ultimo dei classici

Gioacchino Rossini, l’ultimo dei classici - Schola Palatina

Il “realismo comico”

L’attività di Gioacchino Rossini si svolse all’inizio dell’Ottocento. La sua arte ben esprime la mentalità della montante borghesia dell’epoca, animata da ottimismo, sicura delle proprie capacità, alla ricerca della comodità e del successo. A queste doti, il nostro musicista aggiunse una buona dose di umorismo, ironia e simpatia.

Il suo fu uno spirito sano, schietto e popolaresco, che non si prende troppo sul serio, che intende prendere la vita come càpita, divertirsi e far divertire. «Vasto teatro è il mondo; siam tutti commedianti». Con queste parole, messe in bocca al personaggio del filosofo Alidoro nel finale dell’opera lirica Cenerentola, il giovane Rossini espresse la propria filosofia di vita; visto che siamo tutti attori di una trama tragicomica, conviene recitare bene e fino in fondo la nostra parte. Siamo quindi lontani dallo spirito aristocratico di Mozart; eppure anche quest’apparente superficialità ha saputo produrre un’arte che tuttora c’incanta.

La musica rossiniana è senz’altro anticonformista ma non ha nulla di rivoluzionario. Come ben disse Carpani, «in lui tutto non è nuovo, ma nuovo è il tutto». In quei tempi la grande tradizione musicale italiana, anche quella della opera comica napoletana, era ormai messa in crisi dalla ventata proveniente dal nord Europa: Mozart e Weber soprattutto. Rossini fu l’ultimo erede di questa gloriosa tradizione del teatro italiano, ma la rinnovò travolgendola con la propria irruente e solare vitalità.

Gioacchino Rossini cercava di arricchire la melodiosità italiana con il sinfonismo germanico, mirava a realizzare un genere operistico che fondesse il declinante classicismo del secolo precedente col montante romanticismo del proprio secolo; questo genere lo si è definito “realismo comico”. Raccontava le vicende con una vena umoristica di tipo popolaresco che gli permetteva di satireggiare i costumi del tempo senza fare del moralismo. Si guardava bene dal rischio di annoiare l’ascoltatore ed anzi faceva di tutto per divertirlo con situazioni paradossali e stupirlo con continui “colpi di scena”.

Nelle sue opere liriche, i recitativi sono sempre vivacizzati dall’orchestra, i pezzi d’insieme sono numerosi e complessi, i concertati sono realistici e pieni di contrasti. Rossini è maestro del colore, sia strumentale che vocale; ha una musicalità assoluta, un’armoniosità cristallina, una vena melodica inesauribile, un ritmo irresistibile.

Inoltre, egli purificò il belcanto dell’epoca combattendo quell’eccesso di ornamentazione vocale che finiva col soffocare la bellezza melodica. Da allora in poi i cantanti, rinunciando al vezzo di esibirsi in vocalizzi di propria invenzione, dovevano attenersi ad eseguire solo quelli inseriti dall’autore nella sua partitura. Fu questo un primo passo nel riconoscere i diritti dell’autore a veder eseguite le proprie opere senza stravolgimenti dovuti ai capricci delle “dive”.

Gioacchino Rossini: il genio del ritmo

Ma il motore della musica rossiniana, e il segreto del suo successo, sta nello slancio ritmico. “Tutta la potenza della musica sta nel ritmo”, egli affermava. Il ritmo produce tensione, vitalità, vigore, gioia; è segno della spavalderia e dell’ottimismo dell’autore. Ne sono un esempio i suoi famosi “crescendo”, che consistono nel ripetere molte volte uno stesso passaggio ad un’altezza sempre maggiore e con una orchestrazione sempre più piena. Mentre la strumentazione si umanizza, il canto diventa quasi strumentale: la vocalità finisce per esprimere vitalità pura e in tal modo stupire e divertire l’ascoltatore.

Il turbine ritmico travolge non solo la musica ma anche i personaggi della vicenda, che sembrano spesso marionette in balìa di una frenesia irresistibile. A volte le stesse parole del libretto vengono frantumate in sillabe senza significato o esclamazioni onomatopeiche, creando un effetto comico quasi surreale. Il risultato è quello che Cimarosa chiamava umoristicamente “armonico fracasso” e quello che Stendhal chiamava “una follia organizzata”, un apparente caos prodotto in realtà da una rigorosa tecnica musicale, soprattutto contrappuntistica.

Dal comico al drammatico

Gioacchino Rossini fu autore dalla vena fantasiosa e facilissima, capace di scrivere una intera opera lirica in solo 3 settimane e 6 opere liriche in un solo anno (il 1821). Dal 1810 al 1829, egli compose 38 opere, delle quali 16 sono comiche ma 22 sono drammatiche. Il suo capolavoro nel genere comico è senza dubbio Il Barbiere di Siviglia (1816), giustamente definito da Guglielmo Barblan «un miracolo musicale», nel quale l’umoristico si fonde armoniosamente col realistico.

Eppure, arrivato al culmine della popolarità con l’opera comica, Rossini non si accontentò di questo successo e decise di approfondire la propria arte, dedicandosi a comporre quasi solo opere semiserie o drammatiche. Questa svolta venne avviata dal Mosè in Egitto (1818), un’opera che contiene scene solenni, cupe e misteriose, e fu confermata dalla grandiosa Semiramide (1823), che segnò insieme l’apogeo del belcantismo e la sua crisi.

Trasferitosi a Parigi nel 1824, Rossini creò il nuovo genere dell’opera drammatica europea di ampio respiro, ottenendo anche in questo campo grandi successi. Ne sono esempio L’Assedio di Corinto (1826) e soprattutto il suo capolavoro, il Guglielmo Tell (1829). Questo è un grandioso affresco eroico-popolaresco che si regge su una concezione sinfonica del dramma musicale.

Se fin da giovane ebbe immediato successo, nella maturità Rossini fu venerato come un bonario patriarca della musica. Lo paragonarono a Molière e a Shakespeare per la sua capacità di divertire e far riflettere. Le sue opere aprirono la strada all’affermarsi di generi musicali di successo: quelle comiche all’“operetta”, quelle semiserie all’“opéra-comique” e quelle serie al “grand opéra”.

Gioacchino Rossini: il musicista della Restaurazione

Il Rossini maturo fu molto diverso dal giovane ribelle e scapestrato, figlio di artisti girovaghi di fede giacobina. Nel 1820, a Parigi, aveva assistito ai comizi liberali e subìto le barricate rivoluzionarie, che aveva poi ritrovato tornando in Italia. Da allora aveva sempre più avversato la Rivoluzione e parteggiato per la Restaurazione.

Stabilitosi definitivamente in Francia, divenne monarchico legittimista, difensore del Trono e dell’Altare. Fu amico del Metternich, del Re d’Inghilterra Giorgio VI e soprattutto del Re di Francia Carlo X, che lo nominò “Compositore di Sua Maestà e Ispettore Generale del Canto”. Nelle sue ultime opere, Rossini esaltò la monarchia, il patriottismo, l’eroismo militare, la religiosità tradizionale, i costumi locali, elaborando una sorta di epopea popolaresca che rievocava le virtù del “buon tempo antico”.

In questo periodo si riavvicinò anche alla fede religiosa, regolarizzando la propria posizione matrimoniale, diventando amico del Papa Pio IX e componendo musiche sacre come lo Stabat Mater e la Petite Messe Solennelle. Paradossalmente, il suo Guglielmo Tell venne strumentalizzato dai liberali come musica barricadiera, e fu al suono dei suoi cori e delle sue fanfare che vennero suscitate le rivolte risorgimentali del 1830, sia in Italia che in Francia. Il canto libertario ma lealista di Tell trasformato in inno liberale e rivoltoso! Rossini fu inorridito e avvilito da questa profanazione.

Il lungo silenzio finale

Nel 1830, a soli 38 anni, Rossini smise di comporre e si ritirò a vita privata,  mantenendo un silenzio che conservò fino alla morte, avvenuta nel 1868. Proprio quando la sua gloria era giunta al culmine, egli si ritirò con discrezione, rifiutando le innumerevoli, reiterate e vantaggiose profferte che gli rivolgevano.

Questa rinuncia non deve meravigliare. Rossini ormai viveva in un mondo che non era più il suo. La vita si appiattiva e involgariva sempre più, la gioia di vivere andava scomparendo, la Restaurazione era stata sconfitta dalla rivoluzione liberale. La musica veniva travolta dal frastuono del commercio, dell’industria e soprattutto della politica, che la strumentalizzava trasformandola nella propria “gioiosa macchina da guerra” risorgimentale.

Nonostante le apparenze e i proclami, i nuovi compositori stavano sciogliendo il legame con la musica popolare. Il sole mediterraneo era stato oscurato dalle nebbie nordiche; l’equilibrio musicale rossiniano era stato rotto, permettendo il dilagare di un disordinato sentimentalismo e di una volgare aggressività.

I musicisti non divertivano più il pubblico, ma cercavano di drogarlo propinandogli profumi tossici, spezie indigeribili e pozioni fortemente alcooliche. L’opera lirica, con Meyerbeer e Wagner, stava realizzando una rivoluzione estetica avversa all’arte rossiniana e perfino coloro che si proclamavano eredi di questa, come Verdi, seguivano una direzione del tutto diversa.

Rossini invece si ostinava a definirsi “l’ultimo dei classici”, l’ultimo cultore di un’arte che metteva d’accordo popolo e aristocrazia perché univa schiettezza e raffinatezza, vigore ed eleganza, insomma cuore e cervello. Si consolava con la composizione di poche musiche di carattere salottiero o religioso, con la cura della buona cucina e delle amicizie, e soprattutto con l’affetto e la venerazione che continuarono a circondarlo fino alla fine.

Del resto, era impossibile non amarlo. Anche nella maturità, il suo carattere era rimasto gaio, schietto, anticonformista. La sua brillante conversazione era ricercata da tutti, sia nelle osterie popolari che nei salotti aristocratici. Il suo celebre senso dell’umorismo aveva alimentato una letteratura aneddotica che tuttora ci diverte. Valgano due esempi burloni. Una volta, nel giorno del proprio compleanno, egli scrisse alla madre facendole le congratulazioni per avere generato “il grande artista Gioacchino Rossini”.

Un’altra volta si fece sorprendere da un suo amico, fanatico wagneriano, nel tentativo di suonare la partitura del Tannhäuser messa alla rovescia sul leggio del pianoforte, sostenendo che “forse così se ne migliorava la qualità”. Con i compositori impegnati, seriosi e noiosissimi che oggi ci troviamo a sopportare, questo irresistibile spiritaccio, come pure la sua musica, ci sembrano davvero provenire da un altro mondo.

FONTE: Radici Cristiane n. 19

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