Riaperta la rupe del Taigeto

Riaperta la rupe del Taigeto - Schola Palatina

Le vicende di Alfie Evans e di Charlie Gards hanno molto in comune, anche il fatto che su di loro sia stata emessa una sentenza di morte, ritenendo che la loro sia una vita senza valore, dunque sopprimibile. Il “pollice abbassato” ha riaperto la via della rupe del Taigeto, da cui gli spartani buttavano i neonati malformati. La prof.ssa Giorgia Brambilla, bioeticista e docente aggregata del Pontificio Ateneo «Regina Apostolorum», va qui al cuore del problema legato all’eutanasia neonatale e pediatrica ovvero un intreccio tra biopolitica ed eugenetica.

«Noi ricorriamo al medico per salvarci dalla morte; ed, essendo la morte un male, egli ha diritto di somministrarci le pillole più strane e recondite, che a suo avviso giovino a contrastare tale minaccia. Non ha però il diritto di somministrare la morte in quanto rimedio a tutti i malanni», scrisse Gilbert Keith Chesterton in Eugenetica ed altri malanni.

La vicenda di Alfie Evans, di Charlie Gards e di molti altri bambini, cui forse si è dato meno clamore mediatico, hanno in comune non solo la similarità di condizioni cliniche come la gravità o la necessità di una terapia di sostegno delle funzioni vitali – che vanno dalla ventilazione alla nutrizione artificiale – ma soprattutto il fatto che su di loro sia stata emessa una sentenza di morte in virtù di un giudizio di valore: vita senza valore, dunque sopprimibile.

Il “pollice abbassato” ha riaperto la via della rupe del Taigeto, da cui gli spartani buttavano i neonati malformati; da lì si intravede lo strapiombo nichilista di un’etica fondata non sulla sacralità della vita, ma sulla sua “qualità”. La stessa etica che, impedendo a questi bambini di vivere e di essere curati, anche se purtroppo non guariti, miseramente implode proprio laddove si era esaltata, cioè nell’assolutizzazione della libertà come autodeterminazione. E questo perché elimina il primo presupposto della libertà, cioè la vita.

Chi dispone della vita e della morte

Michel Foucault, in La volontà di sapere, ritiene che uno dei privilegi tipici del potere sovrano sia quello di disporre del diritto di vita o di morte sui suoi sudditi. Nella sua idea di «biopolitica», l’uomo, «vivente capace di esistenza politica» come definito da Aristotele, si trova all’interno di un sistema in cui la sua condizione di essere vivente viene messa in questione. Oggetto del potere divengono i processi della vita: nascita, morte, riproduzione, malattia, i quali vengono oggettivizzati e controllati dalle statistiche demografiche.

Questa sempre maggiore pervasività del dominio politico nell’ambito biologico trova una paradossale incentivazione nell’affermazione dei diritti dell’uomo come fondamento delle Dichiarazioni di diritti dell’età rivoluzionaria.

Tali dichiarazioni evidenziano una sovrapposizione di diritti dell’uomo in quanto essere naturale e diritti dell’uomo in quanto cittadino, aprendo la strada alla statalizzazione del biologico e alla regolamentazione da parte della nazione di ambiti sempre più ampi della vita. L’essere e il benessere dei cittadini vengono posti nelle mani del potere politico, che si concepisce loro “sovrano”.

È qui che la biopolitica si intreccia con l’eugenetica, dove per eugenetica intendiamo la volontà di correggere le procedure, che hanno influenzato negativamente il corso della natura, come le «pratiche protettive» a livello sociale nei confronti dei poveri o dei malati – individui considerati biologicamente inadatti –, che invece la selezione naturale avrebbe naturalmente eliminato, e cioè l’applicazione di massa di una teoria spacciata per scientifica in un periodo e in un contesto non ancora totalitario.

Eugenetica, origini antiche

Non bisogna stupirsi infatti che si parli di eugenetica ancora oggi. La mentalità eugenetica è – in quanto lo è già stata – perfettamente compatibile con un pensiero non totalitario e dittatoriale, oggi democratico; del resto, essa non è né nata né decaduta con il nazismo.

La sterilizzazione eugenetica negli Stati Uniti rientrava nei compiti dello Stato e non si configurava affatto come pratica punitiva o crudele. In Svezia, la retorica della «folkhemmet» – una riformulazione in chiave solidaristica del welfare state – fondava nel comune interesse il criterio di «normalità» in base al quale l’individuo era giudicato o meno idoneo.

La bilancia del rapporto tra individuo e società trasferiva sul piano medico-sociale la presenza di una “mano invisibile”, in grado di impugnare il bisturi della sterilizzazione per l’estinzione del debito contratto dall’individuo con la società a causa della sua inadeguatezza.

Nell’Italia positivista la logica della medicina preventiva metteva in luce tutto il suo potenziale selettivo, affermando la necessità di ispirare la propria azione al criterio eugenetico dell’efficienza biologica della nazione, secondo il principio della responsabilità verso la stirpe. Si formava così l’ideale di un uomo perfetto, il metanthropos, configurato come membro di una civiltà capace di una selezione proficua per lui e per i suoi simili.

Vietare alla vita di dare la vita

Come si può realizzare questo, oggi? Nel linguaggio eugenetico la prima procedura di immunizzazione è vietare alla vita di dare la vita. E come non pensare subito alle campagne massive di controllo delle nascite promosse dall’Onu, dietro la bandiera dei «diritti riproduttivi», e di teorie ambientaliste visionarie di stampo malthusiano?

La seconda azione, invece, è evidentemente l’eutanasia. Infatti, in un lessico biopolitico rovesciato, alla «buona nascita» o alla «non-nascita», evidentemente, non può che rispondere la «buona morte».

Si noti come le pratiche in questione, che si parli di sterilizzazione o di eutanasia, vengano sempre proposte con toni apparentemente positivi, di chi cerca il «miglior interesse» del paziente (è facile ripercorrere la retorica del «child best interest» nei casi simili a quello di Alfie), della donna o foss’anche del pianeta.

Si pensi che in quello che potremmo considerare il primo pamphlet sull’eutanasia, questa veniva chiamata «gnadentod», cioè «morte per grazia», «morte pietosa» – termine che trae origine dal coltello a lama corta chiamato «misericordia», con cui un tempo si metteva fine ai patimenti dei moribondi: la vittima diventava il beneficiario della sua soppressione.

Karl Binding, specialista di Diritto penale, ed Alfred Hoche, professore di Medicina, hanno pubblicato nel 1920 Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens, cioè L’autorizzazione dell’annientamento della vita indegna di essere vissuta e successivamente Die Erlösung der Menschheit vom Elend, cioè La liberazione dell’umanità dalla sofferenza.

La problematica giuridica è facilmente superabile, perché per Hoche le persone che colpisce sono già morte. La meticolosa ricerca lessicale di espressioni adeguate alla loro situazione dimezzata, come «semi-uomini» o «gusci vuoti», riuscì ad insinuare nelle coscienze quell’idea che oggi uscirebbe in qualsiasi «discussione da bar» sull’argomento: per queste persone, la morte non arriva dall’esterno, perché è fin dall’inizio parte di quelle esistenze; la loro è una «non-vita».

«Futility» e «Overtreatment»

Nel recente dibattito legato alle situazioni cliniche di Charlie e di Alfie – emblematiche per tantissimi casi simili, purtroppo – si è spostata l’attenzione sul dato clinico, presentando i fatti come risultato di scelte mediche e per questo apparentemente neutrali.

In realtà, i criteri fondamentali che portano alle decisioni cliniche spesso sono tutt’altro che obiettivi, ma muovono da una forte presa di posizione e da un giudizio di valore, anzi di disvalore, nei confronti della vita umana in quella condizione di fragilità. Concetti come «futility» o «overtreatment», ad esempio, non sono affatto asettici.

La «futilità» non è un principio morale, ma una valutazione empirica di un probabile esito clinico, con costi e benefici. Si tratta di un equilibrio fra tre criteri: efficacia, benefici, costi. Oppure, nel caso della «sospensione» delle cure, si nota in letteratura che ad essere presa in considerazione ai fini della scelta non è solo la vita del neonato, ma anche la sua «prevedibile pessima qualità»: anche i non addetti ai lavori facilmente possono rendersi conto di come in queste tre parole – «prevedibile», «pessima», «qualità» – di oggettivo vi sia solo l’arbitrarietà. Anche il “mantra” dell’accanimento terapeutico è invocato spesso in situazioni in cui la morte non sia imminente o inevitabile e talvolta applicato in base a elementi tutt’altro che oggettivi, tali da insistere sul piano emotivo e “pietoso”.

Dunque, se sulla vita dell’uomo venisse fissata una soglia al di là della quale essa cessi di avere valore antropologico, morale e giuridico, la si potrebbe uccidere senza commettere omicidio. È facile associare la «vita senza valore», così com’è stata considerata quella di questi bambini, a una figura particolarmente emblematica del diritto romano arcaico, l’«homo sacer», colui che chiunque poteva uccidere impunemente.

Quindi, l’umanità è divisa in categorie – immagine peraltro tipica dell’immaginario eugenista, tanto da essere ripetutamente rappresentata oggi dai cosiddetti “film distopici” – e in ognuno di noi si può distinguere la vita nel senso pieno, la bios, e la “zoḗ”, cioè il fatto di essere biologicamente vivi. La seconda non ha valore in sé e se la si sostiene a livello medico, ad esempio con la ventilazione meccanica (Alfie, Charlie..), ma anche se la si nutre (Terry Schiavo, Eluana, ecc.), si è considerati «vitalisti» – addirittura «specisti», se si fa riferimento alla superiorità dell’essere umano in quanto tale.

Questo meccanismo mostra il paradosso del sistema liberale, che, mentre esalta la libertà come autodeterminazione, in realtà esercita un biopotere sul singolo fino all’imposizione della morte.

Dov’è finita la «società giusta e ben ordinata» di Rawls, in cui l’uguaglianza fondata sul godimento delle libertà fondamentali è un diritto assoluto?

Qui non solo gli individui non sono tutti uguali, perché alcuni hanno valore e altri no, ma sembrerebbe tolta al soggetto la base che regge tutte le altre caratteristiche fondamentali, libertà compresa, cioè la vita come dato sub-stanziale.

FONTE: Radici Cristiane n. 135

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