Il bene e la felicità: che rapporto hanno?

Il bene e la felicità: che rapporto hanno? - Schola Palatina

Che rapporto hanno il bene e la felicità? Cominciamo con il dire che l’uomo agisce sempre in vista di un fine quando compie un’azione libera e pensa che quel fine sia un bene per lui, altrimenti non lo perseguirebbe. Il bene autentico benefica l’uomo nel senso che lo rende felice. Il bene apparente, invece, può arrecare delle utilità o dei piaceri (trattasi di un beneficio sensibile, empirico o psicologico) oppure nessuno dei due, ma si chiama “apparente” perché è contrario alla dignità della persona. Quindi un bene apparente può beneficare la persona solo superficialmente (piacere proveniente dalla droga) oppure per nulla (voglio uccidere un uomo per vendetta e una volta commesso l’omicidio mi sento malissimo). 

Non è la persona che decide se un bene è davvero un bene, ma la natura umana così come è declinata nel soggetto. Infatti è bene quell’”oggetto” che è compatibile con la natura particolare della persona, perché è ciò che essa esige. Per esemplificare: io posso decidere che è bene innaffiare di petrolio una pianta, ma oggettivamente e non soggettivamente non è il suo bene, a motivo della natura di vegetale che possiede. Parimenti io posso pensare che l’assassinio e il furto siano dei beni per me, ma non lo sono e mai potranno esserli.

Dunque se agiamo necessariamente sempre per un fine e necessariamente lo intendiamo come bene e necessariamente il bene benefica l’uomo, ossia lo rende felice, ciò significa che noi necessariamente tendiamo alla felicità, cerchiamo la felicità in ogni istante. Ma se necessariamente siamo orientati alla felicità significa che non possiamo scegliere di non essere felici: è scelta obbligata (poi bisogna vedere se le nostre scelte concrete ci portano alla felicità vera oppure no). Ergo tutto ciò che noi scegliamo di fare lo facciamo perché crediamo in ultima istanza che concorra alla nostra felicità. Quindi la nostra libertà ha spazi di manovra solo sulla scelta dei beni che concretano questa felicità (e per essere veramente felici occorre puntare sui beni autentici, non su quelli apparenti) e sulle modalità per parteciparli (ed anche in questo caso occorre trovare le soluzioni efficaci per partecipare ai beni autentici: non tutte le soluzioni sono valide), ma non c’è libertà sulla felicità stessa, termine ultimo dei nostri atti. Infatti dove c’è necessità non c’è libertà. Sembra paradossale, ma cerchiamo sempre la felicità, anche quando volutamente ci autodistruggiamo. Facciamo un esempio: sono malato terminale di tumore e così ho deciso di togliermi la vita per non soffrire. In questo caso la morte viene intesa da me come un bene (che però è apparente) che concorre alla mia felicità, se non piena almeno nel maggior grado possibile. Infatti la felicità piena sarebbe stata quella di guarire dal tumore e scegliere di continuare a vivere.

Un nota a margine: la felicità si conquista, ovviamente, anche a prezzo di sacrifici. Un esempio: studio e so che mi costa, ma lo faccio per laurearmi e so che questo contribuirà alla mia felicità. Il gioco vale la candela, potremmo concludere.  

Come può il bene condurci alla felicità?

La felicità per essere piena (la felicità perfetta) comporta il possesso di tutti i beni – di ordine spirituale e non – espressi al massimo grado. Aggiungiamo una riflessione: più un bene è maggiore più felicità mi darà. Ciò vuol dire che Dio, essendo bene sommo, è anche per noi felicità somma: in Lui parteciperemo a tutti i beni sia spirituali, propri della nostra anima, che sensibili dato che avremo un corpo risorto. Quindi la vera felicità è partecipare a Dio: imperfettamente qui sulla Terra, perfettamente in Cielo. Ciò vuol dire che l’uomo non potrebbe desiderare nulla più di Dio, essendo la felicità somma, ossia la felicità perfetta. Quindi oltre a questa felicità non ci potrebbe essere niente altro, perché, se ci fosse, significherebbe che non siamo arrivati ad uno stato di perfezione, perché la perfezione non manca di nulla. In altri termini possiamo dire che ciascuno di noi è chiamato all’infinito, cioè a qualcosa (che in realtà è un Qualcuno) che non essendo finito, non è mancante di niente.

Aristotele nell’Etica Nicomachea spiega che la vita felice (eudaimonia) nasce da un vita virtuosa (e la vita virtuosa conduce a Dio, aggiungiamo noi). Per essere virtuosi occorre vivere secondo la propria natura che per noi uomini è una natura razionale. Dunque se vivo la vita propria del mio essere uomo sarò felice: quindi devo vivere secondo ragione. Ciò comporta ad esempio che posso usare dei piaceri, vivere i sentimenti, le passioni etc. solo se utili alla ragione, solo se ragionevoli.

La vita tesa alla perfezione, cioè che vuole con le azioni possedere tutti i beni al massimo grado, si chiama virtù e vivendo così da virtuosi si è felici. L’agire morale – fare il bene – allora conduce ad una vita felice perché virtuosa, anzi, più correttamente dovremmo dire, che l’agire morale è una vita felice perché virtuosa. Quindi non si cerca di fare il bene per essere felici. Non c’è una moralità strumentale alla felicità e in tal modo la felicità risulterebbe esterna alla moralità: prima agisco bene e poi sarò felice. Bensì nel momento stesso che faccio il bene sono felice, anche se umiliato, offeso, ferito etc. La felicità è dunque immanente alla morale.

Ora accenniamo al tema della determinazione della felicità nella vita particolare del singolo, partendo da una domanda: nel concreto la felicità è uguale per tutti? Se la felicità è partecipare a ciò che ci benefica, ciò che ci benefica è uguale per tutti? Sì e no. Sì, perché tutti noi abbiamo la stessa natura, e quindi tendiamo tutti agli stessi beni: vita, salute, socialità, conoscenza, trascendenza, etc. No, perché, sebbene ognuno di noi abbia la stessa natura umana degli altri, in ognuno di noi questa stessa natura fiorisce in modo diverso (siamo unici a motivo di una particolarissima anima razionale che informa un particolarissimo corpo) e quindi quelle identiche inclinazioni al bene presenti in tutti si adeguano al nostro particolarissimo essere e diventano in tal modo uniche. E così Tizio e Caio tendono entrambi alla conoscenza: ma il primo per sua particolarissima natura vuole studiare, approfondire la storia etc. tanto che vuole diventare docente universitario; il secondo vuole anche lui studiare e approfondire non tanto la storia bensì il funzionamento delle automobili e vuole fare il meccanico. Così anche per l’amicizia che è un’inclinazione naturale: ognuno di noi la vive in modo particolare e personalissimo perché ognuno di noi è unico e particolare (senza tener conto che l’amicizia lega due persone e quindi il legame muta con il mutare della persona con cui si è amici).

C’è da aggiungere che, oltre al fatto che ognuno di noi è unico a motivo dell’unicità dell’anima razionale che informa un corpo altrettanto unico, c’è anche da considerare le abitudini apprese che fanno sì che cerchiamo i beni universali al pari di tutti, ma in modi e gradi diversi. Se una persona è stata abituata a studiare fin da piccola, cercherà più facilmente di accrescere la conoscenza libresca. Se un’altra persona è stata abituata fin da piccola a praticare sport, cercherà più facilmente di fare sport, magari a discapito dei libri verso cui non avrà interesse. Anche le passioni, le condizioni fisiche e psicologiche, gli esempi del mondo, le condizioni ambientali, etc. possono farci scegliere un bene particolare – che è davvero bene – rispetto ad un altro (scelgo di studiare piuttosto che fare sport perché mi sono rotto una gamba), oppure il medesimo bene, ma in modo diverso (Tizio ha passato l’esame con 30 e lode e quindi prende in mano i libri per l’esame successivo con molto entusiasmo a differenza di Caio che è stato bocciato).

In conclusione tutti incliniamo verso gli stessi beni ma in modi e gradi diversi. Quindi tutti siamo orientati alla felicità/Dio, ma le strade sono tante quante sono gli uomini: ognuno ha il suo modo per arrivarci. Stessa meta, ma percorsi differenti. Stessi beni autentici, che conducono tutti verso Dio, fine/bene sommo ed ultimo, ma interpretati da ciascuno in modo unico, personalissimo. E quindi il piano oggettivo con quello soggettivo trovano perfetta ed armoniosa unità.

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