Josquin Desprez, 500 anni dopo

Josquin Desprez, 500 anni dopo - Schola Palatina

Il Quattrocento inoltrato si era ormai lasciato alle spalle la grave crisi del Trecento coi suoi traumi. Le arti registrarono il cambio di atmosfera e virarono con decisione verso l’Umanesimo e gli albori del Rinascimento. L’Italia conobbe la ben nota, quasi miracolosa fioritura delle arti figurative, dalla Toscana al Veneto alle Marche: argomento ben noto ai nostri studenti. E la musica, dalle Alpi al sud? Si rinnovò anch’essa, lasciando le affascinanti astrusità ritmiche e le bizzarrie melodiche dell’Ars Nova e trovando prevalentemente sbocchi in un repertorio “facile”, popolareggiante: le laude omofoniche nel repertorio sacro e soprattutto frottole, ballate e madrigali nel repertorio profano, che non necessariamente venne scritto e tramandato, ma spesso fu volentieri improvvisato o memorizzato nelle corti, nelle feste, nelle case dell’alta borghesia.

Un’esplosione di talenti

Anche più a nord, dal ducato di Borgogna verso Piccardia, Fiandre ed Olanda, il Quattrocento offrì un’esplosione di talenti: se la pittura, con i miracoli della tecnica ad olio, fece la sua parte, in quelle terre fu la musica a conoscere uno sviluppo quasi improvviso e stupefacente.

I maestri genericamente detti fiamminghi nel corso del XV secolo sembrarono monopolizzare la vita musicale “alta”, nelle corti e nelle cattedrali di mezza Europa. Nacque una sorta di scuola, una comunità di musici, tanto teorici quanto esecutori, che tramandò di generazione in generazione tecniche, convenzioni e stili, esattamente come andavano facendo le nostre botteghe dei grandi artisti visivi e plastici. La trafila normale di un compositore fiammingo consisteva nell’iniziare a cantare da bambino, come soprano voce bianca (allora dicevano cantus o dessus), nel coro di un’importante abbazia o sede episcopale; continuare dopo la muta della voce come tenore o basso; e poi cercarsi un posto di maestro di cappella o compositore di corte.

Il posto che occuparono, nella “percezione” che noi italiani abbiamo del Quattrocento, nomi come Donatello, Brunelleschi, Masaccio, Mantegna, Bellini, nelle Fiandre è occupato da personaggi come Dufay, Ockeghem, Obrecht. Finché – era destino o meglio Provvidenza ­- i due mondi, non poi così lontani, si incontrarono e reciprocamente fecondarono. Ai pittori fiamminghi non rimase ignota la meraviglia dell’arte italiana; viceversa, i musicisti di lassù iniziarono a scendere sempre più numerosi dalle nostre parti ed a confrontare i loro procedimenti dotti e raffinati con la vena melodica e la cantabilità meridionale. Isaak o Compère sono tra questi divulgatori della scienza compositiva flandrica in Italia.

Josquin Desprez, il “Leonardo” della musica

Ma, se dobbiamo fare un nome che da solo compendii questa simbiosi tra le due culture, eccoci a parlare di Josquin Desprez. Lasciò questa terra 500 anni fa, il 27 agosto 1521. Un anniversario importante. Facciamo un attimo mente locale: il mondo e, naturalmente, soprattutto l’Italia celebrarono col massimo risalto Leonardo da Vinci nel quinto centenario della morte (1519-2019). Quest’anno ci stiamo ricordando di Josquin Desprez? Certo, anche la sospensione di festival, concerti dal vivo e congressi internazionali non avrà aiutato; ma non è questo il punto. Anche in condizioni normali, pre-virali, le commemorazioni non sarebbero state affatto comparabili e tantomeno da noi. Eppure, nella considerazione dei contemporanei, Desprez fu il Leonardo della musica, quasi esattamente suo contemporaneo (Cambrai, 1450 circa – Condé, 1521), il più grande musicista mai esistito, l’ultimo della cristianità occidentale indivisa, ammirato tanto dai papi quanto da Lutero, dalla Francia quanto dalla Spagna: l’uomo che portò al massimo livello artistico tutte le tecniche e gli stili, che i predecessori avevano perfezionato nel secolo precedente.

Alla corte degli Sforza

Il paragone con Leonardo è suffragato da un’importante circostanza biografica: i due furono contemporaneamente illustri ospiti presso la corte milanese degli Sforza all’inizio degli Anni Ottanta. Anzi, c’è di più! Alla Pinacoteca ambrosiana è conservato un celebre ritratto leonardesco, nei secoli passati riferito ad un nobiluomo, ma ai nostri tempi correttamente identificato come Il Musico. Il personaggio ritratto ha infatti in mano un cartiglio con notazione musicale. Ebbene, i tratti nordici del volto – e, secondo alcuni studiosi, anche quel poco che si decifra delle note – paiono identificare il musicista proprio con Josquin Desprez. Il quale ad ogni modo, ne siamo certi, circa trentenne, era al servizio dell’importante famiglia milanese (fino a far parte del seguito del cardinale Ascanio Sforza).

È suggestivo, quando al Castello Sforzesco si entra nella cappella privata dei duchi, affrescata da Bonifacio Bembo, immaginare che proprio sotto quelle volte abbiano risuonato brani composti da Desprez per i cantori dei duchi e la sua voce stessa (e perché no anche quella di Leonardo, che risulta esser stato tenore di buona voce e liutista. Sì, sapeva fare anche quello).

Josquin Desprez, l’unico “autografo”

La presenza del brillante fiammingo, sempre più ammirato e sempre meglio pagato, è attestata anche a Ferrara, dagli Este, e a Roma nella cappella pontificia ai tempi di papa Borgia. Su di un muro della Cappella Sistina è stata scoperta la sua firma, incisa nell’intonaco: tutto quel che ci resta fisicamente di lui, perché stranamente non abbiamo autografi di una persona così famosa e siamo del resto lontani dal poterne ricomporre per esteso la biografia. Quasi che la sua personalità di persona concreta sia stata totalmente assorbita dallo splendore della sua arte. È infatti di gran lunga il compositore dell’epoca del quale abbiamo più partiture, manoscritte e stampate: ha avuto la fortuna di vivere quando stava iniziando la stampa musicale e la celebre tipografia Petrucci pubblicava con enorme successo europeo ben tre libri di Messe composte da Desprez. E poi abbiamo decine e decine di mottetti (nemmeno tutti suoi, la grande fama attira attribuzioni spurie) e il repertorio profano. Insomma, in un’epoca di polifonia a cappella (cioè per sole voci non accompagnate), che non conosceva ancora né il melodramma né la musica da camera, l’autore padroneggiava in pratica tutti i generi che un compositore potesse affrontare.

I “ferri del mestiere”

La maestria tecnica gli consentì d’impiegare tutti i “ferri del mestiere” che i suoi maestri conterranei gli avevano lasciato in eredità. Era frequente l’uso di melodie gregoriane o profane per imbastirci sopra contrappunti fino a sei voci (il cosiddetto cantus firmus). Adottò il canone, cioè la concatenazione di due melodie identiche ma sfalsate nel tempo o nell’altezza. Isolò porzioni del testo sacro per affidarle a sole due voci (è la tecnica del bicinium), creando l’effetto di linee melismatiche ed ornate, che si liberano nell’aria quasi sfidando la gravità – il massimo dell’effetto col minimo dei mezzi impiegati. Viceversa, a volte prendeva quattro voci e le faceva procedere insieme, a blocchi verticali di accordi, come a presagire l’armonia classica.

Il “Princeps musicae”

Accanto a Messe e mottetti, lasciò chansons in francese (la più famosa, Mille regrets, conquistò il cuore di Carlo V al punto da esser chiamata “la canción del Imperador”) e canzoni italiane, di argomento amoroso o scherzoso, dove il senso della melodia orecchiabile e della piacevolezza ritmica appresi in Italia si sposavano con la sicurezza tecnica nella conduzione delle voci.

Una musica pura, di elevato livello concettuale e spirituale. Quando Raffaello mandò i suoi cartoni per arazzi in Belgio e sconvolse il mondo artistico fiammingo (altro recente quintocentenario dalla morte. Che epoca!), Josquin Desprez aveva ormai ottenuto lo stesso effetto di sconvolgimento sul mondo musicale italiano. Da lui, che per quarant’anni fu considerato il princeps musicae, germoglierà la tradizione autoctona italiana destinata a produrre il miracolo del Palestrina.

FONTE: Radici Cristiane n. 165

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