I criteri di moralità dell’azione

I criteri di moralità dell'azione - Schola Palatina

Quando un’azione è moralmente lecita? Quando conforme alla legge naturale, ossia quando l’azione è consona alla ragione, quindi alla natura razionale dell’uomo e dunque in ultima istanza a Dio. Ma quali sono i criteri che ci permettono di dire quando c’è questa consonanza? I criteri sono dati dall’oggetto, delle circostanze e dall’intenzione. Scopriamo insieme i criteri di moralità dell’azione.

Moralità dell’azione: l’oggetto

Quando compiamo un’azione volontaria perseguiamo un fine materiale/meccanico/fisico (voglio togliere il portafoglio di quella persona dalla sua tasca) e un fine morale/metafisico (voglio rubare). Più correttamente dovremmo dire che il fine morale informa/assegna significato valoriale al fine materiale.

Fermiamo la nostra attenzione sul fine morale: l’oggetto o natura dell’azione o identità dell’azione è il fine prossimo ricercato, il che cosa di carattere morale che noi compiamo. La natura umana può essere definita come un fascio di inclinazioni verso alcuni fini: vita, salute, socialità, conoscenza, trascendenza, proprietà, coniugio, etc. Le azioni buone sono quelle i cui fini sono conformi alla nostra natura umana, ossia conformi a queste inclinazioni, conformi ai fini indicati da questa tensione teleologica. E dunque le azioni buone saranno quelle i cui fini morali sul piano pratico asseconderanno il finalismo del nostro essere, saranno quelle i cui fini morali saranno la traduzione, la riproduzione nella prassi della nostra ontologia che tende ad alcuni fini. Ancor meglio dire, l’azione buona è quella il cui fine morale è consono alla natura della persona che esprime la propria dignità (preziosità) personale. Dunque è centrale che il fine morale di un atto sia conforme/proporzionale alla dignità personale.

Torniamo al fine materiale e al fine morale. Il fine morale (rubare) informerà l’atto materiale (sottrazione portafoglio), costituirà l’anima, la natura dell’atto materiale. Facciamo un altro esempio: Tizio spara a Caio, persona innocente, per ucciderlo. L’atto materiale dello sparare, il fine materiale dello sparo, sarà informato dal fine morale “assassinio”, sarà orientato a tale fine. Dunque l’assassinio costituirà la specie morale di quell’atto, il che cosa abbiamo fatto dal punto di vista morale, la qualificazione di quell’atto sotto il profilo valoriale.

Un nota bene: un identico atto materiale può essere informato da diversi fini morali anche antitetici tra loro sul piano della valutazione valoriale/morale.

Pensiamo all’atto materiale di incidere la pelle di una persona tramite una lama. Questo stesso gesto materiale (questo stesso fine materiale) può essere informato da due fini morali opposti: incido per curare (ad esempio durante un’operazione chirurgica); incido per uccidere l’innocente. Avremo due atti connotati da due specie morali differenti, ma l’atto materiale sarà identico. Parimenti: sparare ad una persona può essere informato dal fine dell’assassinio o della legittima difesa (qui il cambio di fine dipende da diverse circostanze che analizzeremo tra qualche riga). Ancora: togliere il portafoglio dalla tasca di un cappotto può essere informato dal fine morale “furto” oppure “prestito” (anche qui per aversi il fine morale “prestito” occorre il verificarsi almeno della circostanza “consenso del proprietario”).

Di converso un medesimo fine morale può essere partecipato tramite azioni materiali differenti: un assassinio compiuto con un’arma da fuoco o per avvelenamento. Infine un unico atto materiale può perseguire contemporaneamente più fini morali: un medico cura i pazienti sia per sostentarsi con lo stipendio sia per amore del prossimo.

Le circostanze

Passiamo alle circostanze o condizioni in cui si svolge l’azione. I nostri fini sono sempre calati in circostanze concrete perché ciascuna nostra azione si svolge nel tempo e nello spazio, in un tempo e in uno spazio concretissimi, particolarissimi, unici.

Vi sono alcune circostanze che determinano il fine morale, che incidono sulla natura del fine e hanno il potere di mutare il fine (non tutte le circostanze hanno questo potere). Esempio: se io uccido una persona innocente (circostanza) è assassinio, è offesa; se io uccido una persona che attenta alla mia vita e che è un ingiusto aggressore (circostanze), in stato di necessità (circostanza), ossia non potevo che ucciderlo per salvarmi (se potevo scappare avrei dovuto farlo), e l’uccisione è proporzionale all’offesa (circostanza), ossia se lui attentava alla mia salute e non alla mia vita la sua uccisione non sarebbe stata giustificata ed io, in questo caso, avrei dovuto attentare solo alla sua salute, se ricorrono tutte queste circostanze l’atto materiale dell’uccisione viene qualificato sotto l’angolatura morale come “legittima difesa” (o semplicemente come “difesa”). Altre circostanze sono ininfluenti nel determinare la specie morale dell’atto, il “cosa è” dal punto di vista morale: uccido una persona innocente con un coltello o con una pistola. Si tratterebbe sempre di assassinio. Altro esempio: se io sottraggo un bene non di mia proprietà, senza permesso e non in stato di necessità è furto. Se manca una di queste condizioni, non è furto, ma sarà uso dei propri beni, prestito, etc. Ancora: se io ho un rapporto sessuale con mia moglie è atto coniugale; se io ho un rapporto sessuale con la moglie di un altro è adulterio; se io ho un rapporto sessuale con una donna, che non è mia moglie, e in modo consensuale è fornicazione; se io ho un rapporto sessuale con mia moglie e lei non è consensuale è stupro; se io ho un rapporto sessuale con la moglie di un altro e lei non è consensuale è stupro e adulterio; se il padre ho un rapporto sessuale con la figlia è incesto. Il fine prossimo (oggetto dell’atto), dunque, informa il medesimo atto materiale (rapporto sessuale), ma le condizioni diverse fanno cambiare di volta in volta il fine che avrà di volta in volta un significato morale differente che è oggettivo, ossia è tale al di là del riconoscimento della persona.

A tal proposito facciamo un esempio. Fratello e sorella sono stati separati dalla nascita. Si incontrano in età matura, si innamorano e si sposano, stante sempre la loro ignoranza in merito al loro rapporto di parentela: il loro rapporto sessuale non è un rapporto coniugale, bensì incestuoso, anche se loro non si sono accorti di questo. Si può benissimo ignorare la natura di un atto, non solo disconoscerne il valore. In altri termini noi possiamo ingannarci non solo nella valutazione degli atti morali (il furto è atto buono), ma anche nella valutazione della natura, identità, oggetto, significato dell’atto e così possiamo scambiare X per Y. Ovviamente nel caso appena citato, dato che l’errore non è imputabile ai due fratelli, il rapporto incestuoso non è imputabile alla loro responsabilità: quindi avranno compiuto un’azione malvagia, ossia non ordinabile alla dignità della persona, ma senza colpa. Occorre perciò compiere sempre una distinzione tra oggetto dell’atto e imputabilità/responsabilità del soggetto.

Una circostanza che può incidere sul fine è la modalità dell’atto, in specie la sua efficacia. Tommaso scrive: «un atto che parte da una buona intenzione può diventare illecito, se è sproporzionato al fine» (Summa Theologiae, II-II, q. 64, a. 7 c.).

Cosa vuol dire? Un fine astrattamente buono può nel concreto diventare malvagio se scelgo un’azione materiale assai più dannosa che benefica. Esempio: somministro un farmaco per eliminare un herpes (fine buono), ma gli effetti collaterali sopravanzano di gran lunga questo fine buono, i danni superano di molto le utilità: questo farmaco provoca spesso il cancro al fegato. Ci troveremmo nel caso in cui le circostanze concrete, ossia le modalità dell’atto, la scelta dell’azione concreta, può incidere sull’essenza del fine prossimo buono mutandolo in malvagio. Infatti la ragione vedrà l’azione nel suo complesso – fine buono/utilità ossia sparizione herpes + danni – e concluderà che la modalità dell’atto non è proporzionale al fine, dunque è atto irragionevole perché assai sproporzionato. L’atto che avrà una natura (oggetto dell’atto) astrattamente buona (curare) diventerà un atto che avrà una natura concretamente malvagia (danneggiare). La significativa sproporzione degli effetti negativi su quelli positivi provocherà una vera e propria mutazione della natura dell’atto.

L’intenzione

Abbiamo visto che le nostre azioni materiali volontarie sono sempre informate da un fine morale, che abbiamo chiamato prossimo (finis operis) perché a questo si collegano ulteriori fini morali, che vengono chiamati fini secondi, fini ulteriori, fini remoti e a cui assegniamo infine il nome di intenzioni (finis operantis). In breve, il fine prossimo si orienta sempre ad altri fini. Ad esempio, incido la pelle di una persona per curarlo (fine prossimo) affinché viva felice con la sua famiglia per molti anni (intenzione); appendo alla parete un quadro per abbellire la mia casa (fine prossimo) così da ricevere gli apprezzamenti dei miei ospiti (intenzione); sottraggo il portafoglio dalla tasca di una persona per rubare (fine prossimo) al fine di comprarmi della droga per drogarmi (intenzione) e così non pensare ai miei problemi (intenzione). La concatenazione dei fini è quasi infinita. La concatenazione dei fini buoni termina con Dio: tutto deve essere orientato a dare gloria a Dio, fine ultimo.

Se combiniamo fini prossimi e fini secondi, secondo la loro coloritura morale, abbiamo diverse casistiche:

  • fine prossimo buono orientato a fine secondo buono: azione nel suo complesso buona. Lavoro per guadagnare e così sostenere la mia famiglia.
  • fine prossimo buono orientato a fine secondo malvagio: azione nel suo complesso malvagia. Istruisco una persona sul funzionamento delle serrature (fine buono: educazione) per introdurlo all’arte dello scasso (intenzione malvagia: collaborazione al furto). Curo un malvivente (fine buono: curare) perché torni a delinquere (intenzione malvagia).
  • fine prossimo malvagio orientato a un fine secondo buono: azione nel suo complesso malvagia. Rubo per donare ai poveri. Uccido un innocente per salvarne cento. È il campo dei mala in se, delle azioni intrinsecamente malvagie, dei doveri negativi assoluti, degli assoluti morali che vietano di compiere azioni malvagie per fini buoni.
  • fine prossimo malvagio orientato ad un fine secondo malvagio: azione nel suo complesso malvagia. Rubo per drogarmi.

Quale la conclusione di queste combinazioni? Basta un fine – prossimo o remoto – malvagio per rendere malvagia tutta l’azione. Tommaso d’Aquino scrive: «per rendere cattiva un’azione basta un solo difetto: invece perché sia buona in senso assoluto non basta un particolare aspetto di bene, ma si richiede una bontà integrale» (Summa Theologiae, I-II, q. 20, a. 2 c.).

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